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Cultura

Sangue do meu sangue, la forza della storia, la grazia delle immagini

Davide Mazzocco

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Il principale merito dei festival cinematografici è quello di generare un’alternativa all’omologata globalizzazione della produzione d’Oltreoceano. Nella logica di coazione indotta da una distribuzione sempre più a senso unico, il Torino Film Festival rappresenta la possibilità di vedere film che non approderanno mai nelle sale italiane. Film come Sangue do meu sangue di João Canijo che negli scorsi mesi è stato presentato ai festival di San Sebastian (premio Firpesci), Toronto e Pusan e che quest’oggi ha incantato Torino con una storia in cui si passa, senza soluzione di continuità, dal dramma familiare alla storia di gangster, dalla novela al film d’autore. La macchina da presa di João Canijo si cala nei bassifondi del quartiere Padre Cruz nella periferia di Lisbona. Qui segue la vita della famiglia di Márcia, dei suoi due figli Claudia e Joca, di sua sorella Ivete. Claudia è innamorata di un uomo sposato, Joca, dopo aver tentato di soppiantare il suo fornitore Telmo sulla piazza dello spaccio, deve pagare il conto alla criminalità locale. “Il film descrive come l’amore e l’affetto riescano a sopravvivere nell’ambiente sterile e svantaggiato di un quartiere degradato – spiega il regista -. In questo contesto – minacciato dall’ignoranza, dalla violenza e dalla totale assenza di valori civili – l’amore può essere osservato al microscopio nella sua essenza. Più il paesaggio emotivo è arido, più ogni gesto d’amore diventa incondizionato e autentico”. Toccherà a Márcia e a Ivete le “due madri”, una naturale e una istintiva, sacrificarsi per salvare l’onorabilità e la vita dei figli.

Al termine della proiezione è difficile affermare se sia più forte l’emozione suscitata dalla storia o la gioia fornita dalle immagini. Specialmente nella prima metà del film Canijo dimostra di possedere un talento innato nella composizione dell’immagine. Con un disinvolto utilizzo del panfocus e una superba maestria nell’utilizzo delle scenografie, il regista separa (con un muro, con la cornice di una porta) le differenti storie dei due figli. Anche i dialoghi si sovrappongono e se in una finestra vediamo Claudia con il fidanzato César, sul terrazzo vediamo Joca dialogare con la madre. I due plot procedono in stereo anche a livello visivo con un effetto che ricorda lo split screen ma che è assolutamente naturale: ciò che si fa al montaggio è qui “confezionato” con un muro. Anche la messa a fuoco diventa strumento di narrazione, spostando il peso della scena su coloro che ne sono protagonisti. Il piano sequenza del pranzo in cui la famiglia Fialho si ritrova insieme per la prima volta è un pezzo di bravura che dimostra tutta la caratura degli interpreti. Rita Blanco (Márcia) e Anabela Moreira (Ivete) sono due fra le più apprezzate interpreti portoghesi. La loro naturalezza, la capacità di dosare understatement e overacting crea una rassicurante sponda anche per Cleia Almeida (Claudia) e Rafael Morais (Joca), i giovani e promettenti attori che incarnano i due figli in fuga (con modalità diverse) dalla povertà di Padre Cruz. Ottima anche la performance di Nuno Lopes (Telmo) assolutamente credibile nel ruolo del villain. Una menzione particolare ad Anabela Moreira che quindici giorni prima delle riprese ha preso armi e bagagli ed è andata a vivere nello slum lisbonese per assimilarne i gesti, il disincanto e il linguaggio decisamente imbastardito rispetto a quello cui siamo abituati nei (pochi) film portoghesi che approdano nelle nostre sale. Un capolavoro di 139 minuti che penalizzerà non poco la distribuzione della pellicola in un mercato ormai orientato – tranne rare eccezioni, quasi sempre di provenienza statunitense – su film di 90/110 minuti. Lunga vita ai festival, dunque, che permettono a opere come queste di vivere anche al di fuori dei confini nazionali.

In programma mercoledì 30 novembre 16:30 Massimo 1, giovedì 1 dicembre 11:15 Massimo 1. 

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