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Piemonte

Presentato il Rapporto Giorgio Rota 2017 su Torino, una città da reinventare tra chiari e scuri

Redazione Quotidiano Piemontese

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E’ stato presentato il Rapporto Rota su Torino che racconta una Torino in difficoltà che deve ridefinire il suo futuro dopo 25 anni di un modello di sviluppo al capolinea . Il Rapporto quest’anno si apre con l’approfondimento dello stato di salute del tessuto economico torinese, della capacità delle imprese di produrre, creare lavoro e reddito, ma anche di esportare, innovare, dare vita a start up. La seconda parte si occupa della capacità di tenuta del tessuto sociale,  delle disuguaglianze e della capacità di risposta del welfare a bisogni di base, come la casa o la salute.

Il Rapporto Giorgio Rota 2017

Le conclusioni del Rapporto Giorgio Rota 2017

Dal 2008 a oggi è stata pressoché quotidiana l’alternanza di notizie relative a segnali di ripresa o, all’opposto, di aggravamento della crisi. Di conseguenza, s’è diffuso un certo disorientamento, amplificato dal fatto che tali notizie cambiano spesso i propri riferimenti territoriali, ora considerando l’economia globale, ora l’Europa, l’Italia o, nel nostro caso, il Nord-Ovest, il Piemonte, la provincia o il comune di Torino. Come ogni anno, il Rapporto «Giorgio Rota» ha provato ad allineare e comparare tra loro vasti apparati di dati e informazioni, concentrandosi sull’area torinese e confrontando questo territorio con le altre aree metropolitane del Paese. E, come ogni anno, ricorre la consueta domanda relativa al ben noto «bicchiere»: mezzo pieno o mezzo vuoto? Riguardo al tessuto produttivo, l’impressione, in estrema sintesi, è che i segnali negativi tendano a prevalere. Per valore aggiunto prodotto, Torino è penultima nel Centro-Nord, rispetto al 2008 fa parte del gruppo di città – con Genova e quelle meridionali – in cui si sono registrati i peggioramenti più significativi.

Situazione analoga per i livelli di produttività, con Torino penultima nel CentroNord. Tra l’altro, il declino complessivo del valore aggiunto si associa a un minore apporto dell’industria (a fronte di una crescita del peso relativo del settore immobiliare e della pubblica amministrazione); dunque, benché da tempo e da più parti si sottolinei la necessità di una robusta «reindustrializzazione» dell’area torinese, il rilievo della manifattura nella produzione di ricchezza continua, in verità, a declinare. Nell’area torinese, da parecchi anni, diminuisce anche il numero di imprese, specie perché ne nascono meno; così, tra il 2008 e il 2016 Torino ha registrato il secondo peggior saldo tra tutte le metropoli italiane per la natimortalità d’impresa. Dopo avere retto nella prima metà di tale periodo grazie soprattutto a turismo ed edilizia, negli ultimi cinque anni – oltre, di nuovo, al turismo – l’unico comparto con trend positivo è quello dei servizi alle persone (imprese culturali, di pulizia, assistenza, sicurezza ecc.).

Nell’area torinese, poi, si contano ben poche società di capitali, ossia quelle più strutturate per stare sul mercato: da questo punto di vista, il capoluogo piemontese precede la sola Reggio Calabria. Forse sarebbe il caso di cominciare a ragionare sulle cause di tutto ciò: probabilmente, qualcosa negli ultimi decenni non ha funzionato nel «ricambio generazionale» tra imprenditori privati, in particolare nel settore dei servizi. Infatti, se l’industria si è molto ridimensionata, ma quel che è sopravvissuto – pur con fatica – pare per ora reggere, il vero punto di debolezza competitiva è costituito, e non da oggi, dal terziario privato. In questo senso, dunque, anche la scommessa dell’«Industria 4.0» andrebbe magari giocata non solo nelle fabbriche, ma, specialmente a Torino, anche negli uffici delle aziende terziarie. Segnali positivi per l’economia torinese vengono dall’export (che continua a tirare, specie grazie all’automotive verso Francia, Germania e Stati Uniti), dall’innovazione (con un rilievo crescente per l’informatica), dagli investimenti in ricerca (nonostante la crisi) e dalle esportazioni hi-tech, benché i brevetti continuino a essere poi sfruttati soprattutto altrove. Anche per la connettività a banda larga Torino è ben posizionata – terza metropoli italiana, dopo Milano e Bologna – pur patendo il ritardo complessivo del Paese rispetto al resto d’Europa (inoltre, a livello locale, le aree torinesi più debolmente connesse risultano proprio quelle a maggiore presenza manifatturiera, con buona pace dei progetti di sviluppo dell’Industria 4.0).

I dati relativi al tessuto sociale evidenziano come vi siano alcune categorie che più di altre sono oggi in sofferenza, sebbene in forme parzialmente differenti, subendo una crescente emarginazione sociale: i nuclei a basso reddito (precari, lavoratori poveri), i giovani, gli stranieri. Le difficoltà di queste categorie costituiscono, certamente, problemi di livello nazionale, che però nell’area torinese si presentano in forme più accentuate della media. La situazione dei giovani esclusi dal mercato del lavoro, in particolare, mostra per Torino una sorta di paradosso: in una delle città del pianeta con meno giovani, si registra un tasso di disoccupazione giovanile molto elevato, analogo a quello di diverse realtà del Meridione italiano. Quanto agli stranieri, in numero crescente sono relegati in condizioni di precarietà e povertà. In diverse zone dell’area torinese, poi, questi problemi sociali si stratificano, concentrandosi – sebbene non in modo uniforme – nelle zone popolari e (tuttora) industriali: a nord tra Venaria, Falchera e Settimo, a sud tra Mirafiori, Nichelino e Moncalieri. Si tratta di zone che scontano problemi socio-economici non generati (se mai, acuiti) dalla crisi e che tendono a permanere nonostante i numerosi interventi di riqualificazione messi in atto negli ultimi decenni.

Di tali peculiari criticità torinesi, non sempre pare emergere oggi una piena consapevolezza (né tra i cittadini né tra i membri della Conclusioni 221 classe dirigente locale), anche per l’effetto anestetizzante di una certa retorica autocelebrativa basata sulla parola d’ordine della «città migliorata» e su alcune ricorrenti esemplificazioni: le piazzesalotto del centro, le code di turisti ai musei, la movida, i trionfi della Juventus, il prestigioso Politecnico e (ultimamente un po’ meno citato) il successo olimpico del 2006. Se è indubbia l’esistenza di tali punti di forza, il rischio è che diversi preoccupanti segnali di criticità sociali ed economiche moltiplicatisi negli anni vengano derubricati a «effetti temporanei» della crisi, a problemi «comuni a tutte le città», in tal modo esorcizzando le debolezze strutturali che gravano, spesso più che altrove, sul contesto torinese. Una tra tutte – che penalizza molte chance di riscossa socio-economica – è data dalla perdurante debole qualificazione: Torino era e rimane meno istruita di molte altre grandi città, patisce un’elevata dispersione scolastica, registra una qualità non eccelsa della preparazione, conta relativamente pochi laureati e di questi un certo numero (i migliori?) va poi a lavorare altrove.

Il maggiore punto di forza – come emerge da analisi contenute in questo Rapporto, ma anche in quelli degli anni scorsi – è probabilmente dato da un apparato organizzativo efficiente e, soprattutto, dal virtuoso mix tra pubblico e privato sociale (forse il migliore tra le metropoli italiane), in perfetta linea di continuità con la storia torinese. Ci si chiede, tuttavia, fino a quando potrà reggere tale modello, visto che diversi scricchiolii sono avvertibili: il welfare pubblico pare allo stremo e quello privato fatica, anche psicologicamente. Veniamo, appunto, da anni in cui è stata largamente diffusa la convinzione che fosse necessario fronteggiare una crisi «passeggera»; solo che – e qui più che altrove – gli effetti nefasti proseguono, senza poter cogliere, in diversi ambiti, confortanti segnali in controtendenza. La perplessità circa la reale sostenibilità nel tempo di questo modello pare dunque del tutto pertinente; è bene ricordare, infatti, come nella Torino ottocentesca, agli albori del welfare pubblico-privato, la coesione sociale resse anche perché il boom industriale contribuì in misura determinante a risolvere molti problemi economici, facendo da volano allo sviluppo sociale e, quindi, a un irrobustimento dello stesso welfare. Per chiudere, una nota «geografica», visto che le analisi spaziali sono uno dei motivi conduttori di questo Rapporto (non a caso, ricco di mappe territoriali).

In un’Italia che nel complesso sta faticando a recuperare competitività rispetto al resto d’Europa, specie centro-settentrionale, Torino stenta a rimanere agganciata al «sette» dello sviluppo, ossia all’area che oggi nel nostro Paese si caratterizza con crescente evidenza come la più dinamica (comprendendo una serie di province disposte geograficamente, appunto, secondo una forma che ricorda il numero sette) idealmente innervata dall’asse centrale dell’alta velocità: da Milano a Bologna fino a Firenze, estendendosi per diversi aspetti fino alla capitale. Anche a questo proposito, sarebbe bene che i torinesi acquisissero maggiore consapevolezza di tale nuova geografia nazionale dello sviluppo, profondamente mutata rispetto a quella di metà Novecento, quando il «motore» nazionale era costituito dal triangolo industriale nord-occidentale. Dati alla mano, Torino, uno dei tre vertici del triangolo che fu, risulta oggi con sempre maggiore evidenza una sorta di cerniera tra Nord e Sud del Paese, per diversi aspetti un’area urbana ormai più simile a quelle del Mezzogiorno. In questo quadro, anche il (presunto) «derby» con Milano risulta sempre di più una sorta di rievocazione del bel tempo andato; e non pare sufficiente il successo di un Salone per renderla più realistica.

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