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“Vi racconto i prigionieri deportati dalla Libia verso Lampedusa”

Redazione Quotidiano Piemontese

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“Gli spostamenti di massa dalla Libia verso Lampedusa sono sempre meno viaggi della speranza e sempre più deportazioni. Chiedetelo a Kingsley, un ragazzo camerunense che lavorava a Misurata. Il 26 marzo, dopo un rastrellamento delle milizie di Gheddafi, è stato preso e costretto con un fucile puntato a imbarcarsi, insieme ad altre 1200 persone”. Parla Gabriele Del Grande, giornalista fondatore di Fortress Europe, un osservatorio on-line sulle vittime dell’immigrazione in Europa. Ha trascorso gli ultimi mesi tra Tunisia, Egitto e Libia e ora ci riporta il suo sguardo sui fatti, durante un incontro al Museo diffuso della Resistenza nell’ambito della mostra Turin Earth.

Partiamo dalla fine. Partiamo da quelle quasi 40.000 persone (25.000 provenienti dalla Tunisia e 14.000 dalla Libia) che si sono riversate a Lampedusa. Il governo italiano distingue tra rifugiati e clandestini, mentre i giornali parlano semplicemente di disperati. Queste definizioni sommarie rischiano di farci dimenticare che il mare umano dei migranti è una sommatoria di storie personali, al cui interno si nascondono differenze abissali. Le omologazioni sono la base di qualunque demagogia: ecco perché è fondamentale sforzarsi di distinguere.

“Molti dei giovani tunisini che partono per bruciare la frontiera (così si dice in arabo) non sono né profughi, né disperati con le spalle alla guerra – spiega Del Grande – Sono una generazione ubriaca di libertà, che cerca di riprendersi un sogno proibito coltivato per anni, quello di viaggiare: sotto il regime di Ben Ali il reato di emigrazione era punito con sei mesi di galera”. Si è parlato molto di rivolta del pane, in realtà secondo il fondatore di Fortress Europe alla base della migrazione tunisina c’è essenzialmente un bisogno di dignità, di vivere la democrazia fino in fondo, perfino di avventura: “I protagonisti di questa storia sono poco più che adolescenti: in spalle il loro bagaglio di sogni, emozioni e illusioni. Partono per i motivi più futili: per visitare un parente in Europa o semplicemente perché se non parti non sei un vero uomo. Ho conosciuto un ragazzo di 17 anni, sbarcato a Lampedusa e diretto in Francia. Era a scuola e nell’ora di fisica ha ricevuto un messaggio sul cellulare: si parte. E’ uscito dall’aula ed è andato a imbarcarsi. ‘Chi hai in Francia?’ gli ho chiesto. ‘Ho un’amica su Facebook’ mi ha risposto lui”.

Il caso della Libia, si capisce intuitivamente, è molto diverso: “Misurata è sotto assedio: le milizie di Gheddafi sono asserragliate fuori dalla città e ogni giorno bombardano i civili. La navigazione è impossibile, da settimane sono senz’acqua e senza luce”. Parliamo, ovviamente di un paese in guerra. Ma c’è un dato fondamentale da rilevare: dei 14.000 migranti sbarcati a Lampedusa solo 50 sono libici. Gli altri sono stranieri, arrivati in Libia dai paesi vicini per lavorare, nel periodo del boom economico. “Non avevano mai pensato di emigrare, ma ora il regime li sta deportando in Europa per ritorsione contro i bombardamenti Nato. Paradossalmente questa potrebbe essere la loro unica salvezza. Purtroppo la Libia è un paese dove il razzismo ha radici antiche. Da quando è scoppiata la rivoluzione, si è diffusa tra i ribelli la voce (in gran parte falsa) della presenza nelle milizie di Gheddafi di mercenari stranieri. Così si è scatenata una caccia allo straniero, particolarmente brutale verso i neri dell’Africa centrale. In un clima sempre più violento, il rischio di linciaggi è altissimo e il mio timore è che la situazione precipiti nell’anarchia sfuggendo a ogni controllo”. Presi tra due fuochi, odiati dal regime come dai ribelli, i neri della Libia hanno poche possibilità di salvezza. E a questo si aggiunge un’altra tragedia, che ci interroga tutti: “Viaggiano in condizioni disumane e molti di loro non arrivano a Lampedusa. Da inizio anno sono morte in mare circa 1.200 persone”.  

Foto: Max Ferrero

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