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Ambiente

Verso i referendum sull’acqua pubblica. La parola all’esperto

Davide Mazzocco

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Il dottor Dario Casalini, ricercatore in Diritto pubblico della Facoltà di Economia di Torino, collabora con le riviste Diritto Amministrativo, Foro amministrativo – Consiglio di Stato Public Procurement Law Review. A cinque giorni dal referendum ha spiegato a Quotidiano Piemontese i punti fondamentali dei primi due quesiti, quelli relativi alla privatizzazione dei servizi pubblici locali comprendenti, naturalmente, anche le società di gestione dei servizi idrici.

Che cosa dicono l’art. 23 bis della Legge n. 133/2008 e l’art. 154 del Decreto Legislativo n. 152/2006 di cui i referendum chiedono l’abrogazione?

L’art. 23 bis della Legge n. 133/2008 prevede l’obbligo per gli enti locali di gestire i servizi pubblici locali (non solo il servizio idrico, dunque) tramite un operatore di mercato (pubblico o privato) che diviene concessionario o socio gestore della società pubblica che attualmente fornisce il servizio pubblico. La gestione diretta tramite società interamente pubblica (comunemente detta in house) è definita dalla norma una modalità eccezionale di gestione del servizio pubblico, subordinata al parere favorevole dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato che certifica l’inesistenza di un mercato appetibile e contendibile nel contesto territoriale interessato.

Dell’art. 154 cod. ambiente il referendum ha ad oggetto solo una componente della tariffa del servizio idrico: si vuole cioè che questa sia parametrata agli investimenti e ai costi di depurazione e gestione del servizio ma non debba invece garantire «l’adeguatezza della remunerazione del capitale investito». Tale remunerazione non è infatti elemento caratterizzante la disciplina dei servizi pubblici ma normale condizione di accensione di un mutuo o di erogazione di un prestito.

Quali possono essere gli effetti economici della mancata abrogazione?

Potrebbero prodursi due effetti negativi. Entro dicembre 2011, gli enti locali dovrebbero bandire le gare (eventualmente cedendo azioni al nuovo socio) o dismettere il 40% del capitale delle società che detengono: l’obbligo di procedere in tal senso riduce inevitabilmente  il valore di scambio di tali quote che potrebbero essere cedute a condizioni molto svantaggiose per l’ente locale. In secondo luogo, il prevedibile esito delle gare locali (come già confermato dalle procedure sinora celebrate) sarà quello di affidare il servizio al gestore esistente o ad altri gestori pubblici operanti in altri contesti territoriali: a livello di sistema Italia le società in house più efficienti conquisteranno nuovi territori a scapito di quelle meno competitive, onde è difficile immaginare un massiccio ingresso di nuovi operatori di mercato (pubblici, privati, stranieri), che avranno il tempo di prepararsi alla seconda tornata di gare, tra un decennio.

Qual è la posizione dei grandi organismi internazionali in merito alla privatizzazione dell’acqua?

A livello internazionale ci si limita ad affermare il diritto all’acqua come diritto fondamentale (da ultimo nella risoluzione dell’assemblea generale ONU del 28 luglio 2010) ma non si specifica in che modo questo debba essere garantito e cioè quale sia il modello di gestione ottimale del servizio idrico. L’astensione degli USA dalla votazione esprime proprio questa contraddizione, aggrappandosi alle “non chiare implicazioni legali che l’affermazione del diritto all’acqua implica”. FMI e Banca mondiale, dal canto loro, tendono costantemente a condizionare l’erogazione di prestiti per la realizzazione delle infrastrutture idriche nei paesi in via di sviluppo all’affidamento della gestione ad operatori di mercato, al preteso scopo di evitare gestioni pubbliche locali inefficienti.

Quali sono le radici storiche della tendenza a privatizzare beni considerati comuni?

Mi pare di poter affermare che si tratti di una deriva interpretativa della tradizione giuridica occidentale. L’opinabile interpretazione del libro della Genesi (ove sono utilizzati i verbi «dominare» e «soggiogare») che ha enfatizzato il potere di dominio riconosciuto all’uomo sulla terra e sulle sue risorse, è stata confermata dal pensiero filosofico (Cartesio, Locke che nel Trattato sul Governo legittima il fenomeno delle enclosures inglesi con cui si affermavano diritti di proprietà individuali su beni precedentemente collettivi) ed economico (Adam Smith innanzitutto) occidentale. Tali premesse hanno scortato le rivoluzioni industriali, fondate sulla predilezione per la proprietà individuale assoluta, poi esportata nelle colonie, molti dei cui diritti tradizionali attribuivano invece soggettività alla comunità nel suo complesso o addirittura agli elementi naturali che erano pertanto inappropriabili oltre le necessità essenziali.

Secondo i sostenitori del No solamente con la privatizzazione si potrà fare fronte ai costi di una rete infrastrutturale ormai obsoleta. Secondo i sostenitori del Sì l’acqua è un bene che deve essere universalmente garantito. Qual è la scelta più conveniente per i cittadini?

L’art. 23bis è una risposta sproporzionata a un problema che non può né deve tuttavia negarsi. La gestione pubblica in Italia, spesso inefficiente perché vittima di logiche politiche o clientelari, dunque non orientata all’interesse pubblico (o bene comune che dir si voglia), non sempre ha potuto esprimere tutte le sue potenzialità e i suoi benefici. Ma da una cattiva o deviata applicazione del modello non può farsi derivare l’inidoneità ontologica dello stesso. Non vi è dubbio che gli investimenti strutturali siano necessari e improrogabili ma è irragionevole imporre che sia un operatore privato a chiedere al mercato finanziario i prestiti necessari (nell’era post-crisi è ormai evidente che le risorse non stanno nel mercato industriale ma in quello finanziario) quando potrebbe farlo direttamente l’ente locale a condizioni non deteriori. All’indomani del referendum, qualunque ne sia l’esito, è conveniente per i cittadini non smettere di battersi con tutti i mezzi per pretendere una gestione non partitica ma realmente comune delle molte eccellenti società di servizio pubblico esistenti in tutt’Italia.

Quali sono le differenze fra un sistema che assorbe i costi con la fiscalità generale e uno che si affida alle tariffe?

Sono sistemi fondati su scelte politiche differenti (legare il costo al consumo effettivo o prescinderne) che comunque dovrebbero sempre accompagnarsi a meccanismi (tariffari o di compensazione pubblica) a favore delle categorie deboli. La tariffa deve dipendere sia dal consumo effettivo (anche per incentivare il risparmio) che dal reddito dell’utente. Più che il sistema prescelto e il relativo meccanismo tariffario è fondamentale la loro trasparenza: è necessario sapere esattamente “chi paga cosa” e “quanto costa”. Per questo le direttive europee impongono agli stati membri di garantire la copertura dei costi di tutela, conservazione e depurazione delle acque, non importa come.

Restando all’Italia cosa è accaduto laddove si è utilizzato un sistema privato o misto pubblico/privato?

Il coinvolgimento di operatori privati richiede una forte capacità di controllo, vigilanza e contrasto degli inadempimenti che è sovente mancato in Italia (si pensi agli investimenti infrastrutturali autostradali o nelle telecomunicazioni, cronicamente disattesi). Passare da un sistema organizzativo (in house) a moduli contrattuali con operatori privati implica una grande professionalità nella preparazione della gara e nella successiva gestione della relazione negoziale e non sempre le pubbliche amministrazioni italiane sono adeguatamente attrezzate a tal fine. L’operatore privato adeguatamente mantenuto “in tensione” può fornire apporti importanti ma ciò impone di ridurre le asimmetrie informative, anche attraverso l’istituzione di autorità di regolazione.

Mentre a Parigi l’acqua è tornata pubblica dopo una battaglia durata anni, in Italia si vuole compiere il percorso inverso. Il caso parigino è un modello o un unicum?

È un’alternativa sempre presente nel panorama del diritto: definire cosa debba fare lo Stato e cosa il mercato. I fallimenti del mercato che giustificano l’intervento pubblico sono diversamente interpretati nelle stagioni della storia (i patrizi romani si connettevano a loro spese alla rete pubblica, noi oggi lo garantiamo a tutti senza pretendere la corresponsione del costo effettivo). La scelta italiana non ha nulla a che vedere col diritto europeo ma dipende esclusivamente dall’incapacità del sistema di imporsi meccanismi di valutazione dell’efficienza nella scelta dei modelli di gestione. Certamente è sconsigliabile introdurre mercati dove manca il potere d’acquisto per procacciarsi beni essenziali come l’acqua e sarebbe opportuno prevedere strumenti di controllo della performance delle società in house con riferimento alle condizioni offerte dal mercato, senza imporre la dismissione coattiva in un unico momento di un patrimonio sociale costruito in un secolo e finanziato dai contribuenti.

 

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