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Cultura

Se per riscoprire un capolavoro dobbiamo ringraziare Soria e le sue cene letterarie

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Se c’è un merito da attribuire ai quotidiani torinesi, in tutta la vicenda del presunto ritorno in scena – stavolta sul palcoscenico romano – dell’ex patron del Grinzane Cavour Giuliano Soria, è quello di aver rispolverato il nome di Adolfo Bioy Casares e del suo romanzo più famoso, “L’invenzione di Morel” (1940). Un libro e un autore – come scopriamo leggendo su Repubblica – tra i preferiti del professore di Letteratura spagnola, insieme al cubano Vitier e al peruviano Arguedas. Una citazione che è venuta fuori spulciando il blog dell’associazione letteraria Cantiere dei sogni, al centro delle discussioni di questi giorni sulla presunta paternità soriana di alcune iniziative romane (i sospetti restano, lui smentisce). Ora, gli unici commenti sul blog sono di un tale che si firma “invenzione di morel”: che sia lo stesso Soria oppure no, è argomento che lasciamo ai cultori del genere giallo. Per chi ama la fantascienza, invece, è bene spendere due parole sul capolavoro dello scrittore argentino.

IL PREFERITO DI BORGES. “Bioy rinnova letterariamente un’idea che Sant’Agostino e Origene confutarono, che Louis Auguste Blanqui ragionò e che Dante Gabriele Rossetti disse con musica memorabile”. Così si esprimeva Borges sull’amico Adolfo, coautore proprio con il più grande scrittore argentino di numerose storie (scritte con uno pseudonimo). Nato nel 1914 a Buenos Aires da un’agiata famiglia, marito della sorella di Victoria Ocampo, dobbiamo dunque a Bioy Casares uno dei libri cult del genere fantascientifico, il già citato (e riconosciuto anche dai succitati amanti di gialli) “L’invenzione di Morel”. Nel 1974 fu un italiano, Emidio Greco, a curarne la trasposizione cinematografica.

LA TRAMA. Nell’assolato e allucinante scenario di un’isola deserta della Polinesia, uno scienziato barbuto (di nome Morel) e la sua comitiva di turisti-amici ripercorrono – come scrive Borges in una delle introduzioni all’opera di Bioy – “un’antica illusione degli umani: sottrarsi attraverso l’Arte alla corruttibilità della Vita e divenire pura Forma”. L’arrivo sull’isola del protagonista (uno scrittore paranoico) non fa che accellerare i loro piani. Tra i turisti c’è una donna che va a vedere il tramonto ogni giorno dalla scogliera sul lato occidentale dell’isola: il fuggitivo la spia e mentre lo fa si innamora di lei. Lei e lo scienziato che le fa spesso visita parlano tra di loro in francese. Morel la chiama Faustine. Lo scrittore decide allora di avvicinarsi, ma la donna non reagisce di fronte a lui: esattamente come tutti gli altri, nessuno sull’isola sembra realmente notarlo. Come se non esistesse. Il protagonista nota inoltre come le conversazioni tra Faustine e Morel si ripetano uguali ogni settimana e teme di stare per impazzire.

Al centro della narrazione troviamo dunque un’isola, tre protagonisti principali (il fuggitivo, la turista Faustine e lo scienziato Morel), un mistero (l’apparente invisibilità del fuggitivo). Metteteci un po’ d’amore, di fisica e di metafisica e avrete il capolavoro tanto caro a Soria, un libro che fece dire – ancora a Borges – “che nessun’altra epoca possiede romanzi di così ammirevole trama come, tra gli altri, questo che è riuscito a scrivere Adolfo Bioy Casares”.

Un grazie dunque all’ignoto commentatore del Cantiere dei sogni e alla sua passione per la fantascienza; magari adesso cambi nickname, tipo Hyperion o La penultima verità: chissà che anche sui giornali cartacei, dopo anni di cene letterarie prima ‘benedette’ e ora ‘immonde’, non venga voglia di recensire qualche altro classico di un genere spesso bistrattato.

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