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Cultura

Ragazzi, vi racconto la mafia: Pietro Grasso al Salone del Libro

Redazione Quotidiano Piemontese

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La sala rossa del padiglione 1 (Lingotto) è gremita di ragazzi delle scuole superiori. Di solito, quando la platea è così giovane, si capta un brusio costante di fondo. Ma questo è un caso diverso: in un’ora e mezza di incontro non si sente volare una mosca (e non è difficile capire il motivo). Il procuratore Pietro Grasso, una vita spesa nella lotta alla mafia, non fa preamboli e giri di parole. “Quando avevo la vostra età, a Palermo – dice, posando lo sguardo sui suoi ascoltatori – mi capitava spesso di vedere in strada i cadaveri dei morti per mafia, le madri e le vedove che piangevano invocando giustizia. Guardavo, pensavo, non capivo, mi chiedevo se ci fosse un perché. Questa situazione drammatica ha fatto maturare in me, fin da ragazzo, il desiderio di diventare magistrato. Volevo essere utile”.

Così il giudice ripercorre la sua giovinezza: lo vediamo alle prime armi come pretore di Barrafranca, una sperduta cittadina nel centro della Sicilia, dove “l’acqua arrivava una volta alla settimana e le donne vestivano di nero. Uomini non ce n’erano: tutti emigrati, a lavorare in Germania”. Lo seguiamo mentre (i libri di Leonardo Sciascia sotto il braccio)  affronta le prime indagini, quando “nessuno capiva che cosa fosse la mafia: chi parlava di gangsterismo, chi di una componente etnica insita nell’animo siciliano, chi di un’esagerazione degli inquirenti. Si combatteva ciò che non si conosceva e quindi si combatteva male”. Poi, nell’85, la svolta: “Una mattina di settembre, mentre ero in ferie, il Presidente del tribunale di Palermo mi mandò a chiamare. ‘Lei è un giovane pieno di buona volontà, un gran lavoratore’, mi disse vedendomi. Ma io lo interruppi subito: ‘Scusi, Presidente, dove sta la fregatura?'”. La “fregatura” era il primo maxiprocesso contro la mafia, quello in cui il pentito Buscetta dischiuse a Giovanni Falcone i segreti di Cosa Nostra, quello che si concluse con 19 ergastoli e 2.500 anni di prigione erogati complessivamente. In quel processo il “giovane volenteroso e gran lavoratore” Grasso venne nominato giudice a latere della Corte d’Assise, accettando un rischio davanti al quale molti colleghi anziani si erano tirati indietro. Timori per la famiglia, travaglio interiore, forza di volontà: ci sono esperienze che stravolgono la vita di un uomo e che sono sostenibili solo grazie a una sconfinata fede nel proprio lavoro e grazie al coraggio di una moglie (sembra quasi di sentirne la voce: “Accetta e quello che verrà ce lo piglieremo”).

Quando il processo ebbe inizio i timori del Procuratore si rivelarono tragicamente fondati. E’ incredibile come, raccontando il fatto a distanza di molti anni, Grasso riesca a farcelo “vedere”, a farcelo vivere con una nitidezza che raggela il sangue. E’ una giornata di caldo tipicamente palermitana. Lui, rientrando a casa dopo il lavoro, trova sua moglie sconvolta: il terrore negli occhi, le parole che non escono. Con fatica riesce a farsi raccontare quello che è successo. Il figlio, quattordici anni, è andato a una partita di basket. E’ uscito da poco, ma nel frattempo qualcuno ha suonato alla porta. La moglie ha avvicinato l’orecchio al citofono e una voce le ha detto: “Signora, i figli si sa quando escono, ma non si sa se ritornano”. “La mafia ci stava tastando il polso – spiega il giudice – voleva capire con chi aveva a che fare”.

A fine processo Grasso venne incaricato di redigere la sentenza (circa settemila pagine), un gravame di lavoro enorme, da concludere in poco tempo. “Scrivevo, scrivevo, non smettevo mai: lavoravo anche 14 ore al giorno”. Il tutto con la consapevolezza che (per intervento di altri giudici) alcuni degli imputati nel frattempo erano stati scarcerati (e altri sarebbero tornati presto in libertà). “Il fatto è che spesso si devono fare sacrifici enormi con scarsi risultati. Ma non per questo bisogna abbattersi. Se le mafie cercano di trasformare i cittadini in sudditi, la legalità è l’arma dei deboli. E la storia può andare avanti solo grazie a uomini che non si fermano e credono nelle loro idee”. Persone coraggiose, come i ragazzi di Libera, come i fondatori delle associazioni contro il pagamento del pizzo (che stanno promuovendo una campagna di acquisto critico: “Io non pago chi paga”), come gli organizzatori delle Navi della legalità. “Ogni anno – racconta Grasso, concludendo con un’immagine di speranza – per celebrare Falcone e Borsellino, due navi piene di giovani arrivano a Palermo. Ad aspettarle, al porto, ci sono migliaia di ragazzi palermitani. Che incredibile emozione”.