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Cultura

The Descendants, George Clooney questa volta fa il papà

Davide Mazzocco

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Si apre con immagini decisamente poco oleografiche delle Hawaii The Descendants, l’ultimo film del regista Alexander Payne che domattina regalerà una sua sceneggiatura originale al Museo Nazionale del Cinema. Ma il divo della pellicola non è il regista di Sideways (presentato al TFF del 2004) e A proposito di Schmidt (2002) ma George Clooney, la star che fa versare fiumi di inchiostro in ogni dove e che da un po’ di anni ha fissato il suo buen retiro sulle rive del Lago di Como (pare, in futuro, su quelle del Lago Maggiore). Nel ruolo (quasi) inedito di padre, Clooney si muove con la sicura disinvoltura di un’icona più che con la meticolosa preparazione dell’attore. Matt King è un ricco discendente della famiglia reale hawaiana indeciso sulla vendita di una spiaggia tropicale appartenente ai suoi nobili avi. Quando sua moglie, vittima di un incidente, resta in coma, lui deve prendere in mano le redini della famiglia e ricostruire il proprio ruolo di padre al cospetto delle figlie Scottie e Alexandra. Una sconvolgente scoperta, inoltre, lo costringerà a mettersi in viaggio per scoprire la verità sulla vita della persona che gli stava accanto.

Fedele a un cinema fatto di attenzione per la quotidianità, per i sentimenti famigliari e amicali e per i legami (siano essi con un territorio o con un bambino adottato a distanza) Alexander Payne fornisce con The Descendants un’altra prova del suo indubbio talento nel creare pellicole uniche e incatalogabili. Non è cinema mainstream, nè semplice commedia indipendente. L’America? Payne se ne infischia del suo Paese, lui i personaggi non li usa per descrivere l’universo a stelle e strisce. Niente a che vedere con i Coen, con Eastwood, con Scorsese che l’America la infilano (con le dovute rimozioni) ovunque. Per Payne i personaggi servono in quanto personaggi, per raccontare storie. Che cosa passa nella testa di un pensionato? Che cosa occorre fare per dare un senso alla propria vita? Rispondeva Jack Nicholson. Cosa si fa per seguire una passione? Rispondeva Paul Giamatti. Quali sono le vie per essere un buon padre? Come si rispettano coloro che si sono amati? Risponde Clooney. Più misurato, meno stravagante, meno sornione, l’attore diverte senza gigioneggiare come con i Coen, catalizza l’attenzione senza affascinare, si trasforma senza improvvise sterzate. Il merito è tutto della sceneggiatura di Payne che prima ancora di essere un regista è soprattutto uno sceneggiatore. Dopo essere riuscito a mettere la sordina a Jack Nicholson, insomma, il regista di Omaha ripete l’esperimento con Clooney. “Girare un film a Honolulu – spiega – è stata una bella esperienza perché è un’ambientazione diversa da quelle che si vedono solitamente al cinema: il tessuto sociale hawaiano è completamente differente dal nostro”. Anche l’ambientazione, infatti, fa la sua parte accentuando il senso di straniamento. Le Hawaii le avevamo viste nelle commedie di Elvis o in qualche film di navigatori e ammutinati, ora tornano con una storia che poteva avere come sfondo anche Manhattan. E che potrebbe diventare l’outsider della prossima notte degli Oscar.

In programma al Torino Film Festival venerdì 2 dicembre alle ore 22 al Reposi 3, sabato 3 dicembre alle ore 14 al Reposi 3 e alle ore 22 al Greenwich 3. 

 

 

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