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Cultura

Nella solitudine dello sguardo, viaggio al cuore del cinema di Daniele Gaglianone

Davide Mazzocco

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Oltre alla recente retrospettiva dedicatagli dal Piemonte Movie gLocal Film Festival, a far luce sul pregevole lavoro del regista Daniele Gaglianone ha contribuito nelle ultime settimane Nella solitudine dello sguardo,  una monografia curata da Franco Prono e introdotta da Gianni Canova, di gran lunga il miglior critico cinematografico italiano. Proprio l’anticonvenzionalità, la capacità di “rompere i codici. Confondere i registri. Mescolare i linguaggi. Scardinare le inerzie” di cui parla Canova, fanno di Gaglianone un esempio di resistenza in un cinema italiano dove il talento finisce spesso per scendere a compromessi con le esigenze commerciali. L’intransigenza contenutistica e stilistica di Gaglianone che ne avevano marginalizzato il nome portandolo a un passo dall’abbandono, si sono trasformati nei suoi punti di forza dopo gli exploit di Rata nece biti e Pietro un documentario e un film che hanno riaperto una carriera che sembrava finita in un vicolo cieco. I registi in grado di dire qualcosa di nuovo nel cinema italiano di questi primi anni Dieci si contano sulle dita di una mano: l’internazionale Paolo Sorrentino, il sempreverde Marco Bellocchio, gli esordienti Alice Rochwacher, i gemelli De Serio e, appunto, Gaglianone. “Noi viviamo – dice il regista riferendosi al suo film Nemmeno il destino – nel paese dove qualcuno dice che la povertà è percepita ma non è reale… Gli operai non esistono più, le classi sociali non esistono più… (…) Le classi sociali non esistono solo se vai a vedere certi film italiani sui giovani. Ti viene voglia di prenderli a schiaffi loro, chi ha scritto il film, chi lo ha prodotto, chi fatto il regista”.

E gli schiaffi Gaglianone lì dà e li ha sempre dati, in pieno volto, con i suoi film. Schiaffi che risvegliano, sberle che nascono da un pedinamento zavattiniano in un’epoca di ombelico-centrismi mucciniani. Gaglianone racconta realtà prossime a sé ma, a differenza dei suoi colleghi “laureati” dal box office, non racconta se stesso. Sembra una differenza infinitesimale e, invece, è un abisso. “Osservare quindi il muoversi e i percorsi del lavoro di Daniele Gaglianone, attraverso una delle filmografie più intricate e stimolanti del cinema italiano recente, significa sintonizzarsi con un pensiero di cinema (e del mondo) che ha tentato in tutti i modi di spezzare l’isolamento culturale al quale è condannato tutto ciò che ambisce a porre problema. (…) Ciò che la filmografia di Gaglianone pone alla nostra attenzione è la possibilità di avere diritto di praticare un altro cinema italiano. Avere la possibilità di inventare il proprio lavoro e perseguire i propri obiettivi con voce originale e ferma” scrive Giona A. Nazzaro nel suo saggio Daniele Gaglianone: nel segno dell’esilio che non si può che avallare.

Per chi ama il cinema di Gaglianone Nella solitudine dello sguardo, uscito da poco per i tipi di Bonanno Editore e curato da Franco Prono, è una miniera di riflessioni. Oltre a ripercorrerne la carriera facendo luce sui numerosi documentari e cortometraggi e sul suo lungo apprendistato all’Archivio della Resistenza, questo saggio fornisce utili strumenti interpretativi per comprendere un percorso artistico ancora troppo sottovalutato. La lunga intervista di Franco Prono, gli interventi del produttore Gianluca Arcopinto, degli sceneggiatori Giaime Alonge e Alessandro Scippa, dei critici Alessandro Amaducci, Jean A. Gili, Alain Bichon, Giona A. Nazzaro, Steve Della Casa, Umberto Mosca, Carlo Chatrian, Marco Toscano, Michele Marangi, Giulia Carluccio, Grazia Paganelli, Franco Marineo, Andrea Rabbito, Aelfric Bianchi, Andrea Mattacheo e Gabriele Rigola forniscono un esaustivo e sfaccettato supporto alla comprensione di un cinema tutt’altro che facile. Perché, come scrive Marangi riguardo a Pietro, “Gaglianone eisge quindi uno spettatore attento e partecipe, capace di non ritrarsi di fronte alla durezza dell’assunto, mai consolatorio o pietistico, né di smarrirsi all’interno di una narrazione provocatoriamente schizofrenica, che ritma in capitoli la progressione della storia, salvo poi procedere per strappi e aritmie, creando un costante senso di disorientamento”.

Eccellente nella direzione degli attori, Gaglianone è, soprattutto, un grande temperamento tecnico, un autore capace di raccontare con l’uso dei formati (si pensi a I nostri anni), della fotografia, del suono e del montaggio. Perché si può anche padroneggiare divinamente una tecnica ma al talento bisogna anche saper dare un anima. E i classici, i film che anche fra vent’anni saranno sempre vivi, reali, emozionanti, non si costruiscono con il solo talento. Bisogna dargli un’anima, anche a costo di sconcertare. Ecco perché il cinema di Gaglianone, siamo pronti a scommetterci, non invecchierà e continuerà a essere intransigente e universale sentinella di realtà poco piacevoli da udire, vedere, sentire ma con le quali fare irrimediabilmente i conti.

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