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Cronaca

Riparte da Torino una pista per avere chiarezza sul rapimento di Moro: i Servizi aiutarono le Br in via Fani

Redazione Quotidiano Piemontese

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aldomoro“Due agenti dei Servizi segreti aiutarono le Brigate Rosse in via Fani durante il rapimento di Aldo Moro“. Questo il contenuto di una lettera scritta, presumibilmente, da uno dei due uomini che la mattina del 16 marzo ’78 si trovavano sulla moto Honda presente sul luogo dell’agguato. A rivelare l’esistenza della missiva all’Ansa è Enrico Rossi, un ex ispettore di polizia torinese che dal 2011 al 2012 ha indagato per identificare l’altro uomo alla guida del mezzo, che nel frattempo è morto. Un’indagine, sostiene il poliziotto in pensione, ostacolata fin dall’inizio. Scrive il Fatto Quotidiano: 

L’ex ispettore di polizia Enrico Rossi racconta all’Ansa: ”Tutto è partito da una lettera anonima scritta dall’uomo che era sul sellino posteriore dell’Honda in via Fani. Diede riscontri per arrivare all’altro, quello che guidava la moto”. Ma chi inviò quelle righe svelò anche un dettaglio inquietante: gli agenti presenti sul luogo della strage avevano il compito di “proteggere le Br da disturbi di qualsiasi genere. Dipendevano dal colonnello del Sismi Camillo Guglielmi che era in via Fani la mattina del 16 marzo 1978?.

Quella lettera nell’ottobre 2009 arrivò al quotidiano La Stampa di Torino. Eccola: “Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi, il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente…”.

L’anonimo forniva elementi per rintracciare il guidatore della Honda: il nome di una donna e di un negozio a Torino. “Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più”. Il quotidiano all’epoca passò alla Questura la missiva per i dovuti riscontri. Sul tavolo di Rossi, una vita passata all’antiterrorismo, arrivò nel febbraio 2011 in modo casuale. Non era protocollata e non vennero fatti accertamenti. Ma gli indizi per risalire al presunto guidatore della Honda di via Fani erano precisi. Quell’uomo, secondo un testimone ritenuto molto credibile, era a volto scoperto e aveva tratti del viso che ricordavano Eduardo De Filippo. “Non so bene perché – racconta Rossi – ma questa inchiesta trova subito ostacoli. Chiedo di fare riscontri ma non sono accontentato. L’uomo su cui indago ha, regolarmente registrate, due pistole. Una è molto particolare: una Drulov cecoslovacca; pistola da specialisti a canna molto lunga, di precisione. Assomiglia ad una mitraglietta”.

“Per non lasciare cadere tutto nel solito nulla – prosegue l’ex ispettore – predispongo un controllo amministrativo nell’abitazione. L’uomo si è separato legalmente. Parlo con lui al telefono e mi indica dove è la prima pistola, una Beretta, ma nulla mi dice della seconda. Allora l’accertamento amministrativo diventa perquisizione e in cantina, in un armadio, ricordo, trovammo la pistolaDrulov poggiata accanto o sopra una copia dell’edizione straordinaria cellofanata de La Repubblica del 16 marzo”. Il titolo era: “Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse”.

“Nel frattempo – va avanti il racconto di Rossi – erano arrivati i carabinieri non si sa bene chiamati da chi. Consegno le due pistole e gli oggetti sequestrati alla Digos di Cuneo. Chiedo subito di interrogare l’uomo che all’epoca vive in Toscana. Autorizzazione negata. Chiedo di periziare le due pistole. Negato. Ho qualche ‘incomprensione’ nel mio ufficio. La situazione si ‘congela’ e non si fa nessun altro passo, che io sappia”.

“Capisco che è meglio che me ne vada e nell’agosto del 2012 vado in pensione a 56 anni. Tempo dopo, una ‘voce amica’ di cui mi fido – dice l’ex poliziotto – m’informa che l’uomo su cui indagavo è morto dopo l’estate del 2012 e che le due armi sono state distrutte senza effettuare le perizie balistiche che avevo consigliato di fare. Ho aspettato mesi. I fatti sono più importanti delle persone e per questo decido di raccontare l’inchiesta ‘incompiuta’”.

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