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Cultura

Muore Marco Vallora all’età di 69 anni: il ricordo di Nicola Lagioia

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Marco Vallora, noto studioso, critico cinematografico e storico dell’arte è morto ieri, mercoledì 26 ottobre, in treno. Vallora è nato il primo gennaio del 1953 a Torino e qui si è laureato con relatore Gianni Vattimo. Ha lavorato per Einaudi, La Repubblica, La Stampa, Panorama, L’Europeo, Il Giornale, Il Sole 24 ore, Nuovi Argomenti, Paragone e Amadeus. È stato direttore della rivista di cinema “Essai”. Professore di estetica al Politecnico di Milano, e di Storia dell’Arte all’università di Urbino, Vallora ha sempre spaziato tra le arti, studiando nei suoi saggi il rapporto fra pittura e letteratura, cinema, architettura, fotografia e anche musica.

Il direttore del Salone Internazionale del Libro di Torino, Nicola Lagioia lo ricorda così:

“Poteva essere il 1993. Avevamo 20 anni. Io Piva, Fernando Coratelli, l’indimenticato Fabio Menga e altre persone frequentavamo un circolo culturale che noi stessi avevamo fondato e che si chiamava Dedalus, a propria volta “contenuto” in un circolo Arci chiamato Metropolis. Diciamo che questo circolo era all’insegna di Eugenio Montale, Vladimir Majakovskij e Amelia Rosselli, di cui leggevamo continuamente le poesie. Appassionandoci. Litigando. A volte sfiorando scontri fisici sull’interpretazione di un verso o della vita. (A parte la continua preoccupazione degli scontri fisici con i figli dei pregiudicati di Carrassi, dove c’era la nostra sede). Turbolenza, fede, passione, stupidità giovanile, energia, amori e odi. Tutto succedeva là dentro.
Poi, però, il giovedì, ogni tanto mettevamo il naso fuori dalla nostra tana. Con istinti omicidi. Il giovedì, infatti, all’hotel Ambasciatori, c’erano i “giovedì letterari”. Una rassegna culturale istituzionale che noi consideravamo borghese, pretenziosa e degna di essere rasa al suolo. Venivano invitati a parlare lì i veri scrittori, i veri intellettuali, i veri depositari del sapere. (Noi eravamo solo dei ragazzini incazzati o feriti a seconda dei quarti d’ora e dello stato di coscienza) (oggi i ruoli potrebbero invertirsi). Comunque il giovedì andavamo ai “giovedì letterari”, sentivamo parlare lo scrittore o l’intellettuale famoso. Poi prendevamo la parola e lo contestavamo. Gli davamo del cretino, oppure lo invitavamo a uscire dall’hotel per farsi menare. Sto esagerando, ma le cose non erano troppo diverse da come le racconto. Ci furono sputi. Bestemmie. Ogni tanto qualcuno vomitava sulle scarpe di qualcun altro.
Un giovedì pomeriggio, ai “giovedì letterari” venne a parlare Marco Vallora. Noi eravamo lì schierati, pronti ad aggredirlo non appena avesse finito di parlare. Marco Vallora attaccò il suo discorso, e cinque minuti dopo eravamo tutti ai suoi piedi, fummo subito suoi schiavi, suoi fan, sue groupies. Lo amammo immediatamente. Credo fece una lezione a braccio su cubismo, surrealismo fino ai figurativi della seconda metà del XX secolo come Balthus, Francis Bacon e Lucian Freud. Non è che Vallora stava facendo una lezione su di loro. Vallora ERA chiaramente, mentre parlava, uno di loro. Avevamo certamente letto di Braque, Picasso, Max Enrst, Calder… ma solo adesso LI VEDEVAMO per la prima volta, attraverso le sue parole. Solo adesso CAPIVAMO che quegli artisti erano esistiti davvero e continuavano a esistere in lui, loro sodale e contemporaneo, e quindi forse un pochettino in noi, che lo avevamo a pochi aliti.
Così, con l’arroganza e la sfacciataggine dei giovani, non appena finì la sua lezione, andammo sul palco e gli dicemmo: “ci sei piaciuto, hai vinto un viaggio gratis in Puglia di un giorno. ll giorno è quello di domani. Recuperiamo una macchina. Ti veniamo a prendere in hotel e ti portiamo in giro”. E lui: “sì, va bene, ci vediamo domani”.
Il giorno dopo lo andammo a prendere in hotel. Vallora si presentò con 3 o 4 mele (noi eravamo 3 ragazzi e una ragazza) perfettamente lucidate. Ce le diede. Erano chiaramente le mele proibite, appena cadute dall’albero della conoscenza. Ce ne andammo in giro per la Puglia. Tipo, a Castel del Monte. E poi per musei e chiese. La cosa meravigliosa era che al seguito di Vallora entravamo in una chiesa, e lui ci raccontava tutto (stile, autore dei dipinti, nomi degli scultori, caratteristiche e significato di ogni minimo fregio di ogni più sconosciuta chiesa dell’entroterra barese e poi forse foggiano). Arrivava la guida del museo dove ci eravamo infilati e diceva: “questo quadro del 1460…” E Vallora: “be’, no, questo è del 1425”. Noi, orgogliosissimi. Lo amavamo ogni minuto di più. Quel giorno, sempre in macchina, in giro per la Puglia (eravamo partiti da Bari, ora eravamo non si capisce come forse già in Capitanata, o forse era una Capitanata immaginaria e non ci eravamo spostati dalla provincia, in quella che oggi sarebbe la BAT…), mentre Vallora ci insegnava 1000 autori al secondo, sentivamo le sue parole intervallate da un insistente miagolio. Un gatto si era infilato nel motore. Parcheggiamo in aperta campagna. Aprimmo il cofano. Il gatto saltò fuori da quella che sarebbe potuta essere la sua ultima destinazione, così quel giorno (era ormai tramontato il sole) finì con noi che correvamo appresso al gatto, svanendo nel buio della sera, nella campagna pugliese.
Abbiamo continuato a vederci, sentirci, frequentarci, in tante città. Fu lui che consigliò a me e Piva di andare via di casa. Cosa che facemmo. Cambiammo casa e città, senza quasi sapere dove andare. Devo anche a Vallora (pochi anni dopo) il fatto di aver lasciato l’unico lavoro a tempo indeterminato della mia vita. Ho avuto questo tipo di contratto per pochi mesi in 50 anni. Mentre ero alla mia scrivania mi chiama Vallora. Mi dice: “vieni a Villa Medici, ti faccio conoscere Balthus!” E io: “non posso, sto qui in ufficio”. E lui: “fuggi”. E io: “non vogliono, non mi fanno uscire”. Non conobbi Balthus. Ma la notte Vallora mi portò in giro per Villa Medici (aveva le chiavi, aveva tutte le chiavi) facendomi vedere i corridoi e le volute ridipinti da Balthus, e poi la porta dietro la quale Balthus stava forse dormendo.
Mi licenziai da quel posto di lavoro due mesi dopo e da allora non ho più avuto né voluto (non navigavo nell’oro, proprio per niente) mai più un lavoro che non mi lasciasse il modo di scomparire all’istante, se mai Balthus si fosse materializzato da qualche parte e io – grazie all’intercessione di Vallora – avessi potuto raggiungerlo.
Ecco, ho fatto il cretino per qualche paragrafo. Ma è per non piangere troppo. Ti voglio bene Marco. Non ti dimenticheremo mai”.

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