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Processo Eternit, Guariniello chiede vent’anni di carcere per i due dirigenti sotto accusa

Davide Mazzocco

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Vent’anni di reclusione per Stephan Schmidheiny e Jean Louis Marie de Cartier de Marchienne. È stata questa la richiesta del procuratore Raffaele Guariniello al termine della requisitoria finale del Processo Eternit in corso di svolgimento al Tribunale di Torino. Per i due dirigenti accusati di disastro ambientale doloso e omissione volontaria di cautela nei luoghi di lavoro sono state chieste, inoltre, tre pene accessorie: l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, tre anni di incapacità di trattare con la pubblica amministrazione e dieci di interdizione temporanea dalla direzione di impresa.

Il giorno della requisitoria finale inizia poco dopo le nove. La sala è gremita di familiari, ammalati, lavoratori e semplici cittadini che direttamente e indirettamente hanno avuto a che fare con il “polverino”. C’è un ex operaio con la tuta della Eternit. C’è Romana Blasotti, la presidente dell’Associazione Familiari Vittime Amianto Casale Monferrato e Cavagnolo, la donna che ha perso quattro familiari a causa della fibra killer. Ci sono i vecchi sindaci di Casale Monferrato e Bruno Pesce e Nicola Pondrano, i due sindacalisti che lottano da quasi quarant’anni affinché sia fatta giustizia. Il Pm Raffaele Guariniello dimostra – supportato da numerose sentenze della Corte di Cassazione – come la responsabilità del disastro ambientale e della mancata applicazione delle norme a tutela della salute dei lavoratori siano attribuibili al datore di lavoro di fatto o all’amministratore di fatto: “Chi ha la responsabilità dell’impresa – si legge in una di queste sentenze – risponde degli infortuni e delle malattie se, avendo le disponibilità economiche, non pone in essere le condotte atte a prevenire i medesimi”. Le sentenze della Cassazione si spingono ben oltre affermando come la responsabilità dell’amministratore sia, per sua natura, anche quella di tutelare i suoi lavoratori. La requisitoria di Guariniello è generica e tende a evidenziare la responsabilità degli amministratori e dei proprietari nella tutela dei lavoratori.

È la seconda parte della requisitoria, quella esposta dalla dottoressa Sara Panelli, quella che entra nello specifico e che chiarisce perché si sia arrivati a stingere il cerchio su Louis de Cartier de Marchienne e su Stephan Schmidheiny. I verbali dei consigli di amministrazione a partire dal 1951 parlano chiaro: è il gruppo belga facente capo alla famiglia de Cartier de Marchienne ad avere in mano il bastone del comando, mentre la famiglia svizzera ha una quota inferiore. Se a metà degli anni Sessanta Eternit controlla il 70% del mercato italiano del cemento, alla fine degli anni Sessanta la quota di mercato è ridotta al 30% e i vertici societari belgi decidono di disinvestire. Le riunioni per decidere le sorti degli stabilimenti italiani si svolgono a Bruxelles, non in Italia, altro elemento che prova come le decisioni vengano prese su scala globale da molto tempo. Ma, intanto, è già in atto un passaggio di consegne. Il 31/01/74 la famiglia non si presenta a un’importante consiglio societario delegando interamente agli Schmidheiny ogni potere decisionale. A metà degli anni Settanta, dunque, è il gruppo svizzero ad avere le redini della società. Mentre Thomas si occupa del cemento, Stephan gestisce il cemento-amianto.

La documentazione probatoria che dimostra la responsabilità di Stephan Schmidheiny è gigantesca. Vi sono testimonianze dirette, atti di congressi, rapporti tecnici, corrispondenze e decisioni prese nei periodi pre e post fallimento. La famiglia Schmidheiny ha un fortissimo interesse nel cemento e subentra alla famiglia belga spinta dalla necessità di non lasciare aperto un varco nel cartello del business del cemento-amianto in un Paese come l’Italia, vera e propria porta d’ingresso verso l’Africa. Inoltre, gli Schmidheiny sono già proprietari della miniera di Balangero che è uno dei principali bacini di approvvigionamento dell’Eternit di Casale Monferrato. Il mercato italiano, dunque, è un occasione da non lasciarsi sfuggire. Inoltre nel 1973 la famiglia svizzera dispone di un’ingente liquidità dovuta a un mercato edilizio sino a quel momento in costante crescita. Dalla corrispondenza dell’epoca emerge una manifesta subalternità dei massimi dirigenti italiani all’imputato che viene ribadita da tutto il materiale probatorio prima elencato. Ma la colpa più grande di Schmidheiny non è soltanto quella di sapere e di non agire di conseguenza. Dalla fine degli anni Settanta sino ai giorni nostri, infatti, la multinazionale imbastisce numerose strategie di comunicazione finalizzate all’occultamento del problema e, poi, una volta scoppiato lo scandalo in Italia, alla circoscrizione della diffusione delle notizie in merito alla malattia all’ambito locale. Comunque andrà a finire questo processo – che proseguirà lunedì prossimo con le richieste di risarcimento delle parti civili – nulla sarà più come prima: la vertenza torinese, molto probabilmente, diventerà una pietra miliare della giurisprudenza mondiale. E questo perché in Canada e in Brasile il materiale continua a essere prodotto a ciclo continuo e in India a lavorarlo sono le stesse macchine che furono dismesse in Italia diciannove anni fa, quando l’amianto divenne illegale.

 

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