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Cronaca

Livio Penino: Nessuno chiede impunità a prescindere sui NoTav

Redazione Quotidiano Piemontese

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livio-pepinoLivio Penino, ex membro del Consiglio Superiore della Magistratura, ex consigliere di Cassazione ed ex sostituto procuratore generale a Torino e presidente di Magistratura Democratica ha voluto rispondere a un articolo di Cesare Caselli

Sulle pagine del Fatto del 22 ottobre il procuratore della Repubblica di Torino, Gian Carlo Caselli, se la prende con il Movimento No Tav e con «i politici, amministratori, intellettuali e opinionisti» non allineati con il suo modo di gestire alcuni procedimenti relativi a vicende valsusine. Il movimento, nella sua globalità, è accusato addirittura di eversione: perseguìta da alcuni in modo diretto, da altri – la «parte buona» (sic!) – mediante condotte omissive; gli intellettuali, a loro volta, sono indicati come irresponsabili autori di «attacchi scomposti contro il doveroso accertamento delle responsabilità penali». L’oggetto della reprimenda è la (asserita) mancata o insufficiente presa di distanza da episodi di violenza verificatisi in valle. Il procuratore parla dei propri processi, anche se sottolinea di astenersi dall’esame delle responsabilità individuali (come se la ricostruzione della «materialità obiettiva dei fatti accaduti» e la relativa interpretazione non fosse parte delle indagini!), ed è questo improprio “processo a mezzo stampa” che rende l’articolo illuminante, aldilà dell’approssimazione con cui vengono liquidate l’esperienza e la storia del movimento valsusino.

Annoverandomi tra i critici chiamati in causa devo una risposta: l’ho, doverosamente, proposta al giornale su cui l’articolo è comparso, ma ho ricevuto dal direttore un cortese rifiuto a prescindere, cioè senza leggere il testo… Ritorno dunque, astenendomi da commenti e interpretazioni di tale rifiuto, a casa. Non intendo polemizzare con il procuratore di Torino su quella che lui definisce sottovalutazione della violenza “o peggio”. In cinquant’anni di vita pubblica l’ho detto e scritto infinite volte: le dure lezioni del secolo breve hanno dimostrato che un assetto sociale e istituzionale più giusto e rispettoso dei diritti delle persone si costruisce con la partecipazione, l’inclusione, il confronto e non con la prevaricazione e la violenza. Da parte di tutti: cittadini e istituzioni. Ma, qui e ora, il punto centrale, che deve interessare chi ha a cuore la sorte della società e delle persone (e che il procuratore di Torino continua a ignorare), è un altro: come si affronta e si supera la violenza? e quali sono, invece, gli atteggiamenti che la provocano o la incentivano? Sul punto sono disponibile a ogni confronto pubblico, pur se dubito che analoga disponibilità vi sia nel mio contraddittore…

Vengo, dunque, ai passaggi dello scritto pubblicato sul Fatto maggiormente indicativi di quel pre-giudizio colpevolista da me criticato e che non giova alla serenità delle indagini.

Primo. Il procuratore ricorda i «pesanti attacchi contro il cantiere di Chiomonte» e alcuni episodi connessi per arrivare alla conclusione tranchant che «a operare sono squadre organizzate secondo schemi paramilitari […] affluite nella Valle da varie città italiane ed europee per sperimentare metodi di lotta incompatibili con il sistema democratico». Può darsi che sia così, ma sarebbe prudente non scambiare le ipotesi accusatorie con le sentenze definitive e citare, almeno per completezza, a fianco dei passaggi confermativi del Tribunale della libertà, le smentite della Corte di cassazione (10 maggio 2012, in punto «sovradimensionamento» dei fatti contestati) e del Tribunale di Torino (11 luglio 2012, in punto impropria dilatazione delle ipotesi di concorso di persone nel reato).

Secondo. Il procuratore continua ricordando la catena di «attentati/sabotaggi, con danni assai gravi, contro i mezzi di lavoro delle ditte che sono impegnate nel cantiere» e l’ordigno esplosivo inviato a un giornalista. Prova granitica – chiosa – della deriva violenta del movimento. Il pre-giudizio colpevolista è qui particolarmente evidente: in forza di quali elementi quegli attentati vengono attribuiti, con apodittica certezza, ai No Tav? I principali siti del movimento hanno respinto tale attribuzione; le prevaricazioni mafiose sono in valle  una realtà risalente; incendi e danneggiamenti toccano da anni presìdi No Tav e auto o beni di attivisti; la storia del Paese ci ha abituati a una moltitudine di attentati simulati; i gesti sconsiderati di chi è interessato a pescare nel torbido o di schegge impazzite di diversa estrazione non sono una novità. Ogni ricostruzione è possibile. Ma, proprio per questo, non sarebbe opportuno – soprattutto da parte di chi ha responsabilità di indagine – tacere in attesa di riscontri e indagare in tutte le direzioni…?

Terzo. Infine il procuratore evoca, a dimostrazione di un disegno «che può serenamente definirsi eversivo», la “Libera repubblica della Maddalena”, denominazione attribuita dal movimento al territorio circostante l’area presidiata dagli attivisti No Tav, fino allo sgombero del giugno 2011, per opporsi al cantiere. Le parole hanno (dovrebbero avere) un senso. «Eversione» è, secondo i dizionari della lingua italiana, «l’abbattimento o il sovvertimento dell’ordine costituito e delle istituzioni che ne sono l’espressione, compiuto mediante atti rivoluzionari o terroristici» (Devoto-Oli) e, secondo la giurisprudenza di legittimità, essa «non può essere limitata al solo concetto di “azione politica violenta”, ma deve necessariamente identificarsi nel sovvertimento dell’assetto costituzionale esistente ovvero nell’uso di ogni mezzo di lotta politica che tenda a rovesciare il sistema democratico previsto dalla Costituzione» (Cass. – sez. 2, n. 39504 del 17 settembre 2008). Difficile comprendere come l’“occupazione” di una minuscola area della Maddalena possa essere considerata segno di eversione. A maggior ragione in un Paese in cui ministri e presidenti di regione espressi da un partito che predica la secessione (con tanto di “parlamento padano” ed evocazione di fucili e proiettili) stigmatizzano l’assalto allo Stato dei No Tav e plaudono all’intransigenza della Procura di Torino…

Nessuno chiede impunità a prescindere. I reati commessi vanno perseguiti. Ma la precisione delle contestazioni e il senso delle proporzioni sono parte integrante di un diritto coerente con la Costituzione. Non solo per ragioni formali ma anche perché – come ha scritto Francesco Palazzo, illustre penalista di scuola liberale – «un diritto penale che vede nemici ogni dove rischia di accreditare l’immagine di una società percorsa da una generalizzata guerra civile, contribuendo così a fomentare una conflittualità, anzi uno spirito sociale d’inimicizia, che è del tutto contrario alla sua vera missione di stabilizzazione e pacificazione della società».

L’articolo di Cesare Caselli

 Dunque è possibile. Stando alle cronache del corteo di Roma del 19 settembre, cui hanno partecipato migliaia di “antagonisti”, è possibile manifestare con forza ma senza violenza, distinguendosi nettamente dalla minoranza dei facinorosi illegalmente aggressivi. È persino possibile cercare di ostacolarne o impedirne le gesta, così facilitando l’azione delle forze dell’ordine. Perché quel che è successo a Roma sembra invece lontano se non impossibile in Val di Susa, con i No-Tav? Il movimento è formato per la stragrande maggioranza di persone “per bene”. Ma ce ne sono anche “per male”, con tutte le sfumature del male, fino a mettere in conto la commissione di reati. E le persone per bene non osano distinguersi troppo dai violenti. Anzi, li tollerano. Spesso li accettano e ne condividono l’azione (“siamo tutti black bloc” è uno slogan abituale…). E ciò nonostante si sia registrata, negli ultimi due anni, una evidente impennata che cercherò di esporre con esclusivo riferimento alla materialità obiettiva dei fatti accaduti, senza ovviamente toccare nessun profilo di eventuali responsabilità individuali.   NEL GIUGNO-LUGLIO 2011 e anche successivamente vi sono stati pesanti attacchi (di solito notturni) contro il cantiere di Chiomonte. Un’infinità di oggetti atti a offendere (pietre, biglie di ferro, razzi, bombe carta e bottiglie incendiarie) è stata scagliata contro gli operai e poliziotti che sono costretti a vivere asserragliati in quel cantiere. A operare sono squadre organizzate secondo schemi paramilitari, tanto da indurre il Tribunale della libertà di Torino (giudice “terzo” indipendente da tutto e da tutti) a parlare ripetutamente di “eversione” e “micidialità”. E ancora recentemente è stata fermata un’auto (che viaggiava in convoglio con altre di copertura) zeppa di strumenti che una consulenza tecnica ha qualificato come assai pericolosi. Poi ci sono stati moltissimi attentati/sabotaggi, con danni assai gravi, contro i mezzi di lavoro delle ditte che sono impegnate nel cantiere (Rodotà ha sostenuto che si tratta di fatti assimilabili a quelli intimidatori di stampo ‘ndranghetista). Vi sono anche state reiterate iniziative illegali contro vari giornalisti “sgraditi” in Valle. Da ultimo, ecco l’ordigno esplosivo in grado di uccidere fatto recapitare a un giornalista di Torino che ogni giorno i siti No-Tav gratificano con insulti e minacce (per cui non si può escludere, in linea di principio, l’ipotesi che l’attentato – pur anonimo – sia per certi versi riconducibile a qualche scheggia dell’area). Va ancora ricordata la cosiddetta “Libera repubblica della Maddalena”. Poco se ne è parlato, mentre la vicenda avrebbe meritato ben altra attenzione. Si è trattato di una “enclave” creata nei pressi del cantiere, con tanto di posti di blocco valicabili soltanto da coloro (forze dell’ordine comprese) che ottenevano il permesso dei sedicenti “repubblicani”. Dunque, un pezzo del territorio dello Stato italiano sottratto per qualche mese alla sovranità dello Stato medesimo. Un fatto che può serenamente definirsi “eversivo”. Così come è “eversivo” bloccare mezzi di trasporto sul-l’autostrada, circondarli con un manipolo di persone molte delle quali travisate, pretendere l’esibizione di documenti personali e di trasporto per verificare che il carico non abbia a che fare col cantiere. Co-m’è successo a un ignaro e terrorizzato camionista olandese, al cui mezzo è stata anche squarciata una ruota per meglio bloccarlo. Tutto ciò comporta l’usurpazione di funzioni che ogni Costituzione democratica riserva esclusivamente al potere pubblico. E se le parole hanno ancora un senso, per definire tale usurpazione ce n’è una soltanto: che è appunto eversione.   Ebbene, contro questa catena di gravi violazioni di legge, la voce delle persone per bene del Movimento o non si è fatta sentire per nulla o ha balbettato qualche confuso distinguo, quando non ha addirittura preteso di legittimare con pubblici proclami certe azioni violente come i sabotaggi. Col risultato che le persone per bene del Movimento potrebbero anche avere tutte le ragioni del mondo (non lo so, non rientra nel perimetro delle mie competenze) circa l’utilità e i costi del Tav: ma per quanto siano eventualmente valide, queste ragioni non possono che risultare screditate dall’accettazione di fatto di forme anche gravi di violenza.   SI PUÒ DIRE anzi che il Tav – ormai sempre più e irreversibilmente – sembra diventato un pretesto per professionisti della violenza assortiti (le persone “per male”), affluiti nella Valle da varie città italiane ed europee per sperimentare metodi di lotta incompatibili con il sistema democratico, costruendo una specie di laboratorio che si spera non abbia mai a rivelarsi come incubatrice di vicende ancor più gravi.   Sono fatti che non si possono non vedere. Invece, fra politici, amministratori, intellettuali e opinionisti si trovano ancora – purtroppo – personaggi che a prendere le distanze, condannandola senza riserve, dalla commissione di reati (anche violenti) gli viene l’orticaria. Per cui preferiscono tacere o addirittura manifestare indulgenza. Inglobando in questo “generoso” atteggiamento un catalogo di attacchi scomposti contro il doveroso accertamento delle responsabilità penali. In realtà per esprimere radicale insofferenza verso la prospettiva che i violenti possano essere soggetti – come qualunque altro cittadino – all’obbligo di rispondere delle illegalità commesse.

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