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Cultura

Il Re di Pietra, intervista con Gioann Pòlli

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Gioann Pòlli, nome rigorosamente piemontese, è un giornalista, storico organizzatore di rassegne musicali celtiche e folk. Nato sul Lago d’Orta, ha il Piemonte nel Dna ed è questo il centro del suo libro d’esordio, Il re di Pietra, Sconfini. Trovate qui la recensione completa.

Come è nato questo libro?

Se credessi alle coincidenze, ti direi per caso. E invece devo ringraziare la mia coautrice, la scrittrice siciliana Grazia Capone. L’avevo intervistata nel mio programma radiofonico sulle lingue locali perché curava una rubrica televisiva dedicata alla lingua siciliana. Scherzando le chiesi quando mi avrebbe intervistato lei, e invece mi prese sul serio proponendomi non un’intervista ma un gioco letterario. Mi seguiva sui social da tempo e un po’ conosceva le mie tematiche e il mio approccio alla scrittura. Grazia mi chiese di scrivere appunti e riflessioni sulle vere e proprie “tracce” che mi avrebbe affidato. Accettai, senza nemmeno sapere che ne avrebbe voluto fare un vero e proprio libro. Suo anche il titolo. È stata una collaborazione davvero ricca di spunti e anche di tante emozioni.

Si tratta in fondo di riflessioni a tutto campo, del tuo pensiero su quanto ci circonda. Da cosa parti e dove arrivi?

Di fatto è una raccolta di esperienze o visioni personali, ma non vorrei venisse considerata qualcosa di simile ad un’autobiografia. Sarebbe presuntuoso da parte di chi, come me, ha avuto un ruolo nella comunicazione e nell’organizzazione di eventi ma non può certo considerarsi “personaggio pubblico”. Però ciò che mi sono sforzato di compiere nel campo della riscoperta delle origini storiche e culturali dei territori, tutti, non solo il mio, può suggerire un metodo, un approccio valido in teoria per ciascuno di noi. È un viaggio nel tempo e nello spazio, che parte simbolicamente e oniricamente su una vecchia Simca 1000 Special, l’auto della mia infanzia, che torna nei sogni e invita alla scoperta di un mondo interiore ed esteriore. Dal microcosmo individuale, alle mie esperienze nella comunicazione nel mondo dello spettacolo, fino a una possibile visione dell’Universo. Il tutto filtrato attraverso ipotesi di spiritualità ancestrali derivate dal mondo celtico al quale sento di appartenere.

Come detto si parla di tanto ma soprattutto si parla di territorio. Qual è il tuo rapporto con il Piemonte?

Come cerco di spiegare, il Piemonte è la mia vera “matria”, nel senso di Terra Madre. Ho scoperto questo fortissimo legame con il Piemonte, al quale sento di appartenere ancorché provenga dal Lago d’Orta, un territorio “di confine” con la Lombardia, intorno ai 25 anni. Poi, trasferendomi per lavoro proprio a Milano, ho avvertito sempre più questo senso di appartenenza alla mia terra di origine, alla sua lingua, ai suoi simboli, alle sue tradizioni musicali e storiche. Fino alla scoperta delle forti eredità celtiche che ho rappresentato con un lavoro lungo e appassionato anche in sede internazionale, rappresentando per anni proprio il Piemonte al Festival Interceltico di Lorient, in Bretagna. Ci tengo a sottolineare però che questo mio rapporto identitario non significa affatto chiusura alle altre culture, anzi. Credo che soltanto conoscendo e amando visceralmente la propria identità si possa essere pronti a riconoscere, rispettare ed amare quella di tutti gli altri popoli del mondo.

Impossibile in poche domande analizzare la vastità di temi del libro. Ne colgo un paio a memoria, forse dei meno fondamentali. Ci parli di “quella soffitta”?

Luogo mitico e un po’ inquietante, una chiara metafora stimolata da un brano musicale che mi aveva colpito particolarmente, “Profumo di colla bianca” del gruppo prog piemontese La Locanda delle Fate. Ma è un luogo reale, è la soffitta della mia casa di Omegna dove davvero c’è tanta polvere, ci sono i miei vecchi libri e quaderni anche delle scuole elementari e qualche “rovina di un giocattolo”. C’è la storia della costruzione di quella casa che progettò mio padre a metà degli Anni ‘60, e da allora lì sopra è cambiato ben poco. Qualcosa si è accumulato, qualcosa meriterebbe di essere salvato, altro – soprattutto vecchi scatoloni – riciclato. Soprattutto è un po’ complicato accedervi, c’è la classica scala a scomparsa in una botola sul soffitto del vano scale. Ogni volta che si sale ci si riempie sempre di ragnatele… Insomma, scavare nella storia, quella grande e quella minima dei microcosmi, lascia sempre delle tracce, non sempre piacevoli. Ma va fatto, così come andrebbe fatto un po’ di ordine.

E che mi dici del vinile?

Se nel futuro ci sarà ancora un supporto per la musica, sarà il supporto musicale del futuro. E io credo che, così come malgrado la digitalizzazione pressoché totale esisteranno sempre i libri cartacei ancorché magari oggetti un po’ di nicchia, ci sarà sempre il disco in vinile, ora che è tornato prepotentemente di attualità. D’altra parte lo racconto addirittura dal 2006, quando curai un servizio per Radiodue proprio sul ritorno del vinile quando si avevano le prime avvisaglie e tutti parlavano di “moda passeggera”. Dopo 16 anni tanto passeggera non mi pare, dal momento che oggi si vendono più vinili che Cd. Anzi, è il Cd davvero alla frutta: la musica digitale si scarica dalla rete, mentre il disco analogico è tutta un’altra storia. È un oggetto vivo, rituale, si possiede e si ascolta sul divano con la copertina in mano. Un feticcio? Magari anche, ma non fa male a nessuno. Anzi, insegna che anche l’arte della musica e della sua riproduzione ha una sua storia tangibile, e una fruizione che a me piace chiamare, con un paragone evidente al mondo dell’alimentazione, “slow listening”.

Il libro ha un curioso sottotitolo. Ci spieghi questo “Oddèi”?

Una mia amica aveva fatto notare che, ogni tanto, mi scappava questa esclamazione e anche lei ne era incuriosita. Grazia ha raccolto questa annotazione e ne ha fatto addirittura un sottotitolo! In effetti, se ci rifacciamo alla spiritualità ancestrale, ricordiamo che le forme divine sono plurali… gli dei appunto! Poi non è necessario essere pagani conclamati per pensare a diverse distinte – diciamo – per competenza. Se vogliamo possiamo immaginare gli “dei” come metafore delle forze della natura, o come sentimenti o emozioni particolari che proviamo di fronte a certi spettacoli. Non a caso ne ho parlato esplicitamente descrivendo che cosa si può provare di fronte ad una visione maestosa come quella del Monviso, il Re di Pietra.

E poi c’è una prefazione firmata da Alberto Fortis. Ti ha fatto piacere?

Alberto ha letto il manoscritto e mi ha fatto questo regalo immenso. È un artista davvero visionario, capace di cogliere al volo e trasformare in musica o anche in parole le sensazioni più profonde. In questo caso ha colto con precisione i significati più vicini alla mia intenzione che si trovano nelle varie tracce del libro, facendone una “prefatio” artistica davvero preziosa. Ha anche ricordato la “sua” Soffitta, un brano dal suo primo disco, accostandola alla “mia” di cui mi hai chiesto prima. D’altra parte lui e io abbiamo qualcosa in comune: siamo entrambi nati a Domodossola e trasferiti a Milano. Io lo seguo sin dai tempi di “Milano e Vincenzo”, l’avevo intervistato diversi anni fa e ora ritrovarlo a introdurre il mio “Re di Pietra” è stato un dono tanto gradito quanto inaspettato. I miei ringraziamenti più profondi vanno anche a lui, per essersi ritrovato nelle mie parole come io mi sono ritrovato spesso nelle sue.

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