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Politica

Come è cambiato il voto a Torino ?

Redazione Quotidiano Piemontese

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Il voto a Torino nelle recenti amministrative è stato una rivoluzione quantitativa e qualitativa senza precedenti sotto la Mole. Ennio Martignago la ha analizzata a modo suo.

Per chi non conosce questa città vale la pena spiegare che la parte rossa mediana corrisponde ai quartieri del centro dove, a parte alcune aree disagiate da nicchie di immigrazione, in genere vige un discreto benessere, le abitazioni conservano un loro valore, i trasporti e i collegamenti sono assicurati e soprattutto l’ecosistema urbano è tale da rendere la vita accettabile anche in tempi di crisi come questi.
La distribuzione un po’ meno fitta (noblesse oblige) a destra corrisponde al lungo Po collinare e alla Collina stessa che, come quasi tutte le colline, non è afflitta da immigrazione o da campi nomadi, ma piuttosto da “ingiustizie fiscali”.
In tutto il resto? Beh… c’è un po’ di tutto. Dalle nobiltà abitative in relativo decadimento come S. Rita, ai quartieri proletari e quindi comunisti per definizione come S. Paolo.
A parte la periferia sud, maà. Una parte storicamente invisibile e ignorata luogo delle grandi menzogne di quelli che si spacciavano per “comunisti” o “socialdemocratici”.

Nei tempi fra le guerre da quelle parti c’era una specie di cintura sanitaria, una barriera che andava in direzione di Milano, che evitava la contaminazione dei quartieri aristocratici da parte degli indesiderati e che ancora oggi tutti conoscono come il quartiere di Barriera di Milano nell’accezione che, superando i confini del quartiere, abbraccia tutto il nord della città. Il martirio di lavori interminabili imputati alla riqualificazione della zona ha reso molto difficoltoso, sia lo spostamento dalla zona nord est a quella nord ovest e viceversa, sia quella da sud a nord e viceversa.
Quando venne eletto il sindaco Diego Novelli, presto abbattuto dai falchi tiratori social-comunisti collusi con le forze economiche del territorio, avendo pochi soldi per fare metropolitane e avendo bisogno di farle in fretta si scelse di adottare la soluzione delle cosiddette metropolitane leggere secondo un modello delle città del nord Europa. La rete studiata soddisfaceva i bisogni di un po’ tutti i quartieri, ma l’asse centrale est-ovest fu poi l’unico a fare desistere questo modello nei propri quartieri con costi esorbitanti per la realizzazione dell’unica linea attualmente attiva che assolve soprattutto ai bisogni di spostamento del ceto benestante.
Per l’asse nord sud recentemente si è deciso di spostare tutto su un modello di spostamento che sfrutta pochissimi convogli ferroviari con pochissime fermate in sedi disagiate e difficilmente raggiungibili.

Ovviamente, la delinquenza, già presente dai tempi degli “scafisti” FIAT degli anni ‘50-’60, con la clandestinità è diventata insostenibile, per non citare il fatto che la resistenza alle angherie dei campi nomadi, anch’essi posizionati in quelle zone, ma con situazioni particolarmente disastrose proprio a nord, venivano connotate dai benpensanti che vivono al caldo come forme di fascismo.

In breve, ricordo una qualche trasmissione di gossip politico dove una madama sull’argomento ribatteva con un “E dove vuole che li mettiamo?—?parlando di Roma?—?in centro? magari in piazza Navona?” E perché no? pensavo io. Ma poi venne la celebre imboscata nata dalla complicità Bignardi-Augias a spiegarci che i ricchi hanno, non solo il diritto di esserci, ma anche quello di arricchire sempre di più. Come dire che gli altri possono solo tacere e subire “democraticamente” (fu così che Menenio Agrippa scavò più a fondo ancora la propria già ignobile fossa).

In giro fra social e magazine leggo che Torino è stata amministrata bene e che le Olimpiadi con i buchi e gli inciuci ben noti l’hanno resa “più bella e più superba che pria”: certo, sono stati amministrati bene gli amici di Augias e le loro facciate, mentre le altre zone hanno dovuto subire l’espoliazione dei centri di socialità urbana?—?biblioteche, mercati, corpi di sicurezza, associazioni…- in cambio dell’accettazione “democratica” di sacrifici molto pesanti soprattutto in proporzione alla debolezza contrattuale e ai costi dell’invivibilità civica.

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