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Cultura

Donne e follia in Piemonte, intervista con Bruna Bertolo

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Collegno, via Giulio a Torino, Savonera, Racconigi, Grugliasco. Sono i luoghi della sofferenza in Piemonte. I manicomi che dall’inizio dell’800 al 1978 sono stati teatro di storie di profondo dolore, nella maggior parte dei casi provocandolo più che riuscendo risolverlo.

Sono quindi anche i teatri in cui si svolgono le storie ricostruite da Bruna Bertolo in Donne e follia in Piemonte – Donne e follia in Piemonte, Susalibri. Il libro è un’approfondita ricerca che ci restituisce un panorama fatto di storie, luoghi, documenti, immagini e soprattutto – mi pare che questo sia il punto – persone. Trovate qui una recensione più approfondita.

Bruna Bertolo ha risposto alle mie domande.

Donne e follia in Piemonte nasce evidentemente da un lavoro di ricerca molto approfondito. Dove hai trovato storie e documenti?

E’ stato un lungo lavoro di ricerca, portato avanti sia pure con qualche periodo di interruzione, per circa due anni nell’Archivio Storico dell’ex manicomio di Collegno, che contiene anche tutto il materiale relativo ai manicomi di via Giulio a Torino, di Savonera, di Grugliasco. Un’immensa “galleria” di cartelle cliniche e di atti amministrativi accuratamente conservati e che ho potuto esaminare grazie all’aiuto prezioso di Calogero Baglio, responsabile dell’Archivio e della imponente Biblioteca Medica che rappresenta, per chi fa ricerca, un’altra indispensabile fonte di notizie da cui partire. Nella mia ricerca, ho individuato alcuni periodi particolari, la fine dell’800, il periodo della Grande Guerra, il fascismo, la Seconda Guerra Mondiale, gli anni 60, su cui concentrare la mia attenzione. Ho esaminato centinaia di cartelle cliniche, spesso di non facile lettura. Fogli uniti da spilli spesso arrugginiti che mi sembrava quasi un sacrilegio dover disunire… da quelle cartelle, alcune gonfie di notizie, altre molto scarne, sono partita per ridare voce a donne che si erano perse in quei cameroni di umanità dolente. Ecco la mia ricerca nasce da lì… e si è via via focalizzata su fatti e personaggi che emergevano dalla polvere e dal vuoto. L’aiuto di Calogero Baglio è stato determinante: probabilmente senza di lui questo libro non sarebbe mai nato.

Le condizioni di (non) vita negli ospedali psichiatrici italiani sono tristemente noti ai più. Mi pare che la forza di questo libro sia invece raccontare gli incredibili motivi per i quali una donna poteva finire in manicomio. Ce ne parli?

Direi che questo è proprio il filo conduttore del libro. Ho messo in risalto come per molto tempo il manicomio sia stato essenzialmente un grande contenitore di umanità dolente: non solo donne, ma tutti quegli individui che, in un certo senso, erano di disturbo alla Società. La legge Giolitti/Bianchi del 1904 stabiliva che “debbono essere custodite e curate nei manicomi le persone affette per qualunque causa da alienazione mentale, quando siano pericolose per sé o per gli altri e riescano di pubblico scandalo”. Riuscire di “pubblico scandalo” per una donna di fine 800 e primi decenni del 900 non era certo difficile: molte donne finirono in manicomio per problemi che nulla, o ben poco, avevano a che fare con la malattia mentale. Scrivo nel libro: “Prese nel laccio della moralità pubblica, molte volte le donne furono ritenute pazze solo perché avevano osato far sentire la loro voce. Qualche volta si erano ribellate alle umiliazioni subite in famiglia, qualche volta avevano urlato il loro no alle percosse da parte del marito, alle continue gravidanze, a leggi ingiuste che le escludevano di fatto dai più elementari diritti, a gravi carenze alimentari che ne condizionavano la salute, come la pellagra, causando anche demenza. Donne isteriche, melanconiche, depresse, epilettiche croniche, a volte definite “stupide”, agitate, maniache con erotismo accentuato, donne che provenivano da “stipite degenerata”, di liberi costumi. Scrive il professor Pier Maria Furlan nell’ultimo capitolo del libro intitolato “Lo sguardo della Società verso le donne in manicomio”: “I manicomi (dobbiamo aspettare la metà del Novecento per chiamarli ospedali psichiatrici) divennero sempre più degli enormi collettori di quanto la precaria organizzazione sociale non riusciva a sostenere, comprese le donne e soprattutto quelle che non si adattavano alla “naturale” condizione di sottomissione, remissività, repressione pulsionale patriarcalmente imposta dal pater familias”.

Pare di capire che per una donna fosse molto più semplice entrare in manicomio che uscirne?

Ci sono donne che hanno trascorso la maggior parte della loro vita in manicomio, dimenticate o quasi dalla famiglia e dalla Società. Nel libro evidenzio come sia stato molto faticoso entrare nella realtà sottesa dalle famose cartelle cliniche: in ognuna c’è una storia, un’esistenza, qualche volta una speranza. Spesso però la porta della speranza, chiamata guarigione e ritorno in famiglia, non si apriva più. Ecco la crudeltà, ma insieme la realtà, di una frase scritta da un medico: nei trent’anni di degenza nessuno ha mai visitato la paziente…Spesso le famiglie smettono di chiedere notizie e molte volte sono proprio i mariti che cercano di evitare di riprendere la moglie in casa, sostituita da un’altra compagna… ricordiamoci che non c’era il divorzio! Chi pagava? Per chi non aveva i mezzi, per le degenti povere, pagava la Provincia!

Collegno è forse il manicomio italiano più noto. Ma in Piemonte ne esistevano anche altri, da via Giulio a Torino a Racconigi. Quanti erano e che caratteristiche avevano?

Nel volume, scandito con un ritmo cronologico per quanto possibile, racconto, attraverso le tante storie personali inserite, anche i luoghi in cui si svolsero le loro vite rinchiuse. E quindi i vari manicomi che accolsero uomini e donne nel corso dell’800 e del 900. Si parte dal manicomio torinese di via Giulio, al numero 22, i cui lavori iniziarono nel 1828 per sostituire l’antico “Ospedale dei Pazzerelli”, assumendo la denominazione di “Regio Manicomio”. Progettato per accogliere circa 600 alienati, tra uomini e donne, fu inaugurato nel 1834 da re Carlo Alberto e divenne famoso come l’Albergo dei due pini, a causa della presenza di due grandi pini davanti all’ingresso. Ben presto si capì che la struttura non era sufficiente ad accogliere i matti e le matte che sempre più numerosi venivano ricoverati. E allora via Giulio divenne un manicomio solo femminile. Mentre la nuova realtà per i matti fu identificata presso la Certosa di Collegno, a partire dal 1852. Anche una parte delle donne veniva comunque portata a Collegno, a causa di una grave epidemia di colera. Ma via Giulio e Collegno non bastarono… ed ecco allora l’apertura della nuova realtà di Racconigi, per uomini e donne, in funzione dal 1871….Ma non bastava ancora… E fu così che si pensò a Savonera, inizialmente studiato come ricovero provinciale per malate non gravi, ma in seguito diventato manicomio a tutti gli effetti, in cui le donne venivano curate con la terapia del lavoro… Ma il numero dei pazienti, uomini e donne, cresceva ancora. Ed ecco allora l’apertura di un moderno manicomio, in pieno periodo fascista, a Grugliasco: donne e anche bambini in quella struttura esaltata dal regime.

Il tuo libro è pieno di documenti, foto, approfondimenti… ma soprattutto di storie di donne. E’ fondamentale capire che non sono nomi, ma persone, che spesso hanno sofferto per tutta la loro vita…

Nel libro la parte iconografica rappresentata da documenti e fotografie è fondamentale. E in questo percorso di costruzione della storia sommersa e dimenticata di tante donne, ho avuto un aiuto importante da due fotografi, Renzo Miglio e Sergio Sut, che ebbero negli anni 70 la possibilità di raccontare, attraverso le loro immagini, una parte di questo mondo sommerso. Ho cercato però di inserire fotografie che non fossero mai lesive della dignità personale delle donne che conobbero la realtà del manicomio. Dietro ognuno dei volti una storia. Dietro ogni documento un percorso di vita. Ho dato particolare risalto alla storia di Lucia Saltarin, la poetessa di Collegno: il grande Guido Ceronetti, nel suo spazio quotidiano nella prima pagina della “Stampa”, pubblicò una poesia di Lucia, intitolata “Madonna d’Egitto”. Nel mondo di Lucia, come nel mondo di tante altre donne che conobbero la difficoltà della malattia e la chiusura del manicomio, schizofrenia e genio sembrano convivere. Allucinazioni e tentativi di suicidio, ma anche versi molto belli e momenti di serenità grazie al lavoro degli educatori in un tempo in cui la realtà terribile del manicomio stava finalmente cambiando. “Ritorno alla vita. La canapa stringe i polsi, ma l’anima è libera. Il sole di nuovo mi scalda”… questi alcuni versi di Lucia. Versi che commuovono.

Negli anni ’60 la consapevolezza di quanto accadeva nei manicomi raggiunge il mondo esterno. Il ’68, i giornali, naturalmente Basaglia… quali sono i motivi di questa consapevolezza?

La legge Basaglia, la cosiddetta Legge 180, datata 13 maggio 1978, fu preceduta da almeno un decennio di grande fermento, di lotte contra il sistema manicomiale, per certi versi simile a quello carcerario, che, nel Torinese, si legò alle iniziative e al coraggio di chi si mise in gioco in prima persona per scardinare un sistema che continuava a segregare più che a curare e a pensare ad un reinserimento nella Società. E’ la nascita di un movimento che spinge ad un cambiamento profondo. Anche i giornali, “La Stampa”, la “Gazzetta del Popolo”, l’”Unità”, con le loro denunce ebbero un ruolo fondamentale per una nuova presa di coscienza. Il Professor Pier Maria Furlan, primo Direttore universitario di un Dipartimento di Salute Mentale e patologia delle dipendenze e ordinario di Psichiatria dell’Università di Torino, al quale devo l’ultimo capitolo dedicato ai personaggi femminili famosi che conobbero la reclusione del manicomio, ha sottolineato spesso quanto la chiusura dei manicomi sia stata resa possibile da una tensione ideologica e culturale, spesso settoriale indotta e sostenuta da alcuni meritori gruppi di intellettuali, con un contributo fondamentale dei giornali dell’epoca, capaci di sbattere davvero in prima pagina la denuncia di quanto avveniva all’interno dei manicomi.

Che ruolo hanno avuto i medici Giuseppe Luciano e Annibale Crosignani?

Ho avuto la possibilità di intervistare in più occasioni sia il dottor Luciano che il dottor Crosignani, incontrati nelle sale della Biblioteca medica di Collegno. Parlare con loro è servito anche a chiarire le difficoltà, all’epoca, di combattere contro un sistema profondamente radicato. Il loro ruolo, accanto ad altri psichiatri di quegli anni ovviamente, è stato determinante verso la via del cambiamento. Piccoli passi per grandi lotte. Non si può dimenticare anche il ruolo avuto nel risveglio delle coscienze e nella volontà di cambiamento dell’Associazione Lotta alle Malattie Mentali fondata a Torino da Piera Piatti. Nel libro naturalmente tratteggio i momenti essenziali che, attraverso le lotte di Luciano e Crosignani e di chi condivise il loro pensiero (fondamentale il ruolo delle infermiere!) portò alla nascita della comunità terapeutica del Reparto 5, primo colpo di piccone al sistema dominante. Il 10 aprile 1969 il Reparto 5 divenne il Reparto della Libertà: 160 donne, in un progetto per una psichiatria più rispettosa della persona, più responsabile, una nuova esperienza di cura. Il 13 settembre 1969 le alienate di via Giulio fecero un falò delle cinghie di contenzione. Il vecchio manicomio cominciava a cedere. La proposta di creare la cosiddetta psichiatria di settore, aprendo sul territorio zone operative in grado di fornire servizi sul piano terapeutico, preventivo e riabilitativo attraverso la creazione di apposite équipes, diventava una possibilità e poi una realtà. La malattia mentale usciva dal chiuso dei manicomi. Facile? Tutt’altro? Un percorso difficile, dai tanti risvolti. Alcuni anche molto dolorosi. Ma il manicomio così come era stato fino ad allora concepito non poteva più avere diritto di cittadinanza…

Mi piacerebbe chiudere con un’immagine positiva, anche se probabilmente poco più che simbolica. Ci parli dell’abbattimento del muro dell’ospedale psichiatrico di Collegno?

Fu un momento di grande importanza nella comunità collegnese, testimoniata dalle foto di Renzo Miglio inserite nel libro. La caduta del muro, ancora prima dell’entrata in vigore della legge Basaglia, rappresentò la fine di un’epoca anche per la città di Collegno. Non fu indolore! Nelle fotografie si vede il sindaco Alberto Manzi che avanza con la fascia tricolore sui resti di quello che per oltre un secolo era stato il muro che divideva la città dei folli dalla città dei vivi. E’ una data importante per la città e per le istituzioni: giugno 1977, un anno prima della Legge Basaglia. E poi, in altre foto, in altri tratti del famoso muro di cinta, ragazzini che giocano, che si arrampicano sul mucchio di pietre e sassi. Sono le “macerie” di un sistema, non solo di un muro. Si apriva comunque un periodo difficile, in cui tutto era da costruire… su quelle macerie! La lotta di Basaglia e di chi aveva condiviso il suo pensiero faceva sperare in un futuro diverso, ancora molto indeciso. Alberto Sinigaglia, Presidente dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte, nel suo ricordo di Franco Basaglia, inserito ad inizio del mio libro, scrive: “Mai una volta negli incontri veneziani Franco si vantò che la Legge 180 del 1978 fosse chiamata «legge Basaglia». Non pronunciò mai la parola «rivoluzione», che altri usarono e abusarono per ideologia o per moda. Parlava di lavoro, più che di quello fatto, del molto che restava da fare. Soffrirebbe nel vedere che quel lavoro oggi non è ancora finito”.

E tu cosa ne pensi?

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