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Cultura

La faglia, intervista con Massimo Miro

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Torino, Borgo Stura, 1978. Qui si svolge la vicenda che racconta Massimo Miro nel suo La faglia, Scritturapura. Siamo in una periferia fittizia ma che potrebbe essere tranquillamente la zona di Torino che si sovrappone a quell’area e che chi c’era in quegli anni conosce bene. E’ zona di immigrazione, dove i ragazzi crescono tra piccoli furti e sigarette cercando di sbarcare il lunario.

Tra questi ci sono i nostri protagonisti, tra i quali Gomez, l’unico che in qualche modo è uscito da quel mondo ed è diventato uno stimato professionista. Una telefonata però lo riporta a quegli anni, a quel gruppo di amici e all’anno in cui cinque ragazzi salvarono Aldo Moro dal covo in cui era detenuto dalle Brigate Rosse. Detta così fa un po’ strano, qui trovate la recensione completa del libro ma per sapere tutto non potete fare altro che leggere il romanzo.

Massimo Miro, questo libro è la storia di un gruppo di ragazzi in un quartiere difficile in un periodo difficile. Come è nata la voglia di raccontare questa vicenda?

Con questo romanzo ho voluto raccontare una storia tra il vero, il verosimile e il visionario. E’ una vicenda accaduta nel 1978 in una delle tante periferie di Torino. I personaggi sono nati spontaneamente, è stato tutto molto semplice e naturale. Avevo bisogno di raccontare non solo una storia amara, ma anche il contesto sociale di quei tempi, con le sue dinamiche, i suoi riti. Non volevo scrivere una storia nostalgica, volevo solo ricostituire quelle dinamiche nei tempi di un romanzo. Il quartiere, il territorio, la violenza di strada, i sogni e le aspirazioni di questi ragazzi ai quali apparentemente non mancava niente. Erano tutti figli di operai, artigiani, avevano tutto quello che gli serviva, non erano spiantati. Ma il loro tragico disinteresse per la realtà li ha sopraffatti, li ha trasformati in carne da macello per la società. E’ questo, l’aspetto che mi interessava raccontare. Tuttavia, il mio rimane pur sempre un romanzo, io racconto solo una storia, che a tratti è anche divertente.

Il teatro della vicenda è Borgo Stura, che è talmente presente da diventare quasi protagonista. Che quartiere era negli anni ’70?

Nella realtà Borgo Stura non è mai esistita, ma per come l’ho descritta ricorda un luogo antropico, un agglomerato di case, cemento. Ho preferito far muovere i miei personaggi in un ambiente neutro, che ricordasse le caratteristiche della periferia, anche con grande fedeltà storica. Ma sostanzialmente doveva essere un luogo non luogo, non poteva essere Mirafiori, o Vallette, o Falchera. Non volevo che il lettore perdesse energie nel cercare luoghi esistiti magari nella sua adolescenza, non volevo caratterizzare troppo il contesto del territorio. Borgo Stura doveva essere la periferia di ogni grande città industriale.

I protagonisti del tuo libro vivono situazioni estreme ma lo fanno come fossero normali, perchè quello è il mondo che conoscono. Sbaglio se dico che non vedo in loro rassegnazione ma addirittura inconsapevolezza che un altro mondo sia possibile?

I miei personaggi vivono in un completo, fatale disinteresse per la società e per la realtà culturale che li circonda. E’ questo il loro grande problema. Il loro atteggiamento nichilistico, che li porta a praticare la violenza come forma di espressione, quasi di affermazione, determinerà il loro isolamento. Pasolini diceva che la violenza criminale nasce dal considerare la vita degli altri nulla, ed è da qui che nasce la loro freddezza nei confronti del mondo. Vivere in un quartiere di periferia nella Torino a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, significava fare i conti quotidianamente con la legge della strada. Per quanto oggi ci sembri fuori dal tempo, tutto ciò era reale, e all’ordine del giorno. Per i miei personaggi questo era un impegno primario, oltre a questo non c’era niente, perché questa dinamica era facile da comprendere, nella sua primordialità. Il resto era troppo complesso da decodificare, perché richiedeva una struttura culturale adeguata. Ricordiamo cosa era Torino in quegli anni. E quanti coetanei dei miei personaggi, fossero impegnati a sostenere ben altre lotte, sulla base di critiche alla società anche complesse. Pensiamo alle lotte studentesche, alle rivendicazioni operaie. Quello che mi interessava rappresentare, era la grande differenza tra chi cercava di cambiare il mondo (con mezzi più o meno leciti), e chi si arrendeva al limite di un atteggiamento di difesa. Gran parte dei personaggi che racconto oggi sono cresciuti e sono una massa silenziosa, che personalmente mi inquieta.

Gomez, che ci accompagna in questo viaggio nel tempo, è l’unico che è uscito da quel mondo. Eppure scopriamo che ne è rimasto profondamente legato. E’ l’infanzia che non possiamo abbandonare o la durezza di quell’esperienza quotidiana?

La nostra infanzia e la nostra adolescenza, sono due fili che continuano a farsi sentire per tutta la vita. Sono come quei punti interni che hanno creato aderenze, e che continui a sentire nelle giornate umide o quando fai dei grandi sforzi. Quello che siamo a diciotto anni lo saremo per tutta la vita, anche se poi la vita ci impone certe maschere. Sono sovrastrutture delle quali abbiamo bisogno per dissimulare la nostra vera natura. Gomez, il mio protagonista, oggi è un cinquantenne, ha una bella famiglia, ha studiato, è il direttore di una importante azienda in Brianza. Per arrivare lì ha dovuto scappare da Torino, dove il suo destino sarebbe stato segnato. Si potrebbe dire che oggi Gomez è un uomo arrivato, che ha lasciato alle spalle il suo passato. Eppure, un giorno, durante una discussione con un fornitore, Gomez perde le staffe e lo afferra per il colletto sbattendolo contro ad un muro. Gomez si spaventa della sua stessa reazione, ne rimane profondamente turbato. E’ in quel momento, che si rende conto di quanto la nostra natura rimanga sempre lì, in agguato. La nostra essenza rimane sottopelle, per tutta la vita, e saranno solo una serie di fortuiti casi, a determinare come e quanto, saremo adeguati al mondo che ci circonderà nella vita.

E poi c’è la “questione Aldo Moro”, che ovviamente non sveliamo ma è una chicca splendida nel libro. Come è nata quest’idea?

Avevo bisogno di creare una opportunità ai miei personaggi, che in fondo, sono bravi ragazzi, hanno un’anima buona. Ad un certo punto, ai miei personaggi si presenta la possibilità di salvare Aldo Moro da un covo delle Brigate Rosse, e loro non esitano. Si imbattono in questa incredibile impresa, che nel corso degli anni, fino al presente narrativo, determinerà una serie di tragedie. Aldo Moro è stato uno dei primi elementi della storia, il romanzo è partito proprio dalla sua figura, che ovviamente non ha una funzione attiva nella trama. La sua è più una figura spartiacque, e contribuisce a rappresentare una faglia, un prima e un dopo, nel romanzo e nella politica italiana. La sua idea di Compromesso Storico, altro non era che un tentativo di far coesistere due visioni di società, come due placche oceaniche, che si scontrano proprio in una linea di faglia. E ovviamente scatenano energie incontrollabili.

Come è cambiata Torino oggi rispetto a quegli anni?

Torino oggi è una città post-industriale. Siamo sulla strada buona, ma ci vorranno ancora molti anni prima che quella enorme ferita si rimargini. Torino si è riconvertita, ma fatica sempre a scrollarsi di dosso quella patina di grasso e olio tipica della produzione. Si tratta in fondo di trasformare la tradizionale laboriosità torinese, in un animo più “milanese”, ovvero più diversificata. Per quanto riguarda gli aspetti del territorio, Torino non è cambiata molto rispetto ad altre città, a parte qualche grattacielo in più e un passante ferroviario. Consideriamo sempre che gli anni che racconto sono stati gli anni del grande apice demografico, dopo allora la popolazione è scesa inesorabilmente anno dopo anno. Le periferie di allora non sono più le periferie disagiate, flagellate da droga e violenza urbana. Quei ragazzi sopravvissuti, sono cresciuti, hanno messo la testa a posto e hanno tirato su famiglia. Io parlo in fondo anche di questo. Della linea di faglia che un giorno si è manifestata nella loro vita, e che ha imposto loro da che parte stare. Soccombere o sopravvivere.

Il tuo racconto si presta particolarmente a diventare un film. Facciamo un gioco: quali attori ti piacerebbe intrepretassero i tuoi personaggi in una trasposizione cinematografica?

Bellissima domanda. La struttura della storia prevede che alcuni personaggi siano raccontati in due epoche della loro vita: L’adolescenza e l’età adulta. Per quanto riguarda le vicende narrate negli anni Settanta, gli attori vorrei che fossero ragazzi sconosciuti, magari alle prime armi. Per quanto riguarda invece le parti da adulti, nel gioco dei nomi, il mio Gomez vorrei che fosse Giorgio Pasotti. Per caratteristiche fisiche, autenticità nell’accento, e anche per quel velo di sottile malinconia che caratterizza i suoi personaggi.

Da musicista della scena torinese quale sono, dedicherei particolare attenzione alla colonna sonora, che in realtà esiste già, perché mi sono già stati “donati” brani da tantissimi artisti, tutti torinesi, quali Medusa, Statuto, Linea 77, Bianco, Motel Connection, Luca Morino, Mao, Negazione, Onu44, Fasti, Nerorgasmo, Perturbazioni, Moncada, Maurizio Chiaro, Fluxus, Petrol, Straw, Banda elastica Pellizza, Carlo Pestelli, Mirafiori Kidz, Santabarba, Treni all’alba, Stefano Giaccone, Puro Acrilico e Franti. La canzone principale si intitola Giro di Vite, ed è un bellissimo pezzo dei Fluxus che parla di palazzi, periferie e alienazione. Le sigle di testa sarebbero Torino è la mia città dei Rough nella versione degli Statuto, e Torino che non è New York, un brano del 1976 di Enzo Maolucci.
Direi che abbiamo tutto quello che serve. Ora ci manca solo un produttore esecutivo!

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