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Twist and shout, Luigi Colasuonno racconta gli ultimi (o i “quasi adatti”)

L’intervista con Luigi Colasuonno

Gabriele Farina

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TORINO – Quello che ci propone Luigi Colasuonno è un viaggio fuori dal tempo (anche se è più che altro un tempo passato), un viaggio tra le storie dei suoi personaggi, che raccontano e si fanno raccontare. Quindici storie che ci restituiscono il panorama degli strati più bassi della popolazione.

Twist and shout (e il suo clamoroso sottotitolo “con l’aggravante dei futili motivi”), Neos Edizioni, è un puzzle di personaggi che si incastrano perfettamente tra loro. Non abbiamo eroi, non abbiamo vincitori. Anzi direi che siamo proprio all’altro estremo della città: i personaggi di Colasuonno sono “gli ultimi”.

Sconfitti, barboni, senza lavoro, gente che occupa appartamenti, migranti, trans e prostitute. Perfino assassini e uomini che uccidono le donne. Allora siamo in una raccolta di orrori? Dirà il letttore più curioso. Tutt’altro! Gli ultimi di Colasuonno sono uomini e donne come gli altri. Anche i più “colpevoli”, i più cinici, i più violenti. Sono uomini e donne capaci di sorridere e con cui finiamo quasi per solidarizzare, anche quando compiono atti contro la legge e la morale.

Ora tenetevi forte perchè mi lancerò in un paragone azzardato. Qualcuno ha detto Fabrizio De Andrè? Perchè questo sono gli uomini e le donne di questa raccolta. Persone come le altre, ultimi senza colpa (perchè la colpa non esiste). Persone che vivono o provano a farlo in condizioni difficili, a volte disperate.

Il tutto condito dall’ironia e dalla prosa attenta e ricercata dell’autore, capace di coinvolgere il lettore non solo con le storie ma anche con la irresistibile bellezza delle parole.

L’intervista con Luigi Colasuonno

Prostitute, senza tetto, perfino assassini. I protagonisti dei tuoi racconti sono “gli ultimi”. Eppure sono ultimi “senza colpe”. Come ci ha insegnato De Andrè, “la colpa non esiste”?

Il tuo è palesemente un colpo basso: rispondere sì equivarrebbe ad accoccolarsi sotto la rassicurante ala dell’autorevolezza di Faber, rispondere no mi porterebbe a prenderne le distanze (e non sia mai).
Per uscire dall’angolo posso dirti che quando i personaggi si sono presentati, li ho inquadrati non tanto come “ultimi”, piuttosto, per dirla con Peter Høeg, come dei “quasi adatti”, ciascuno dei quali ha offerto con generosità ai miei polpastrelli desideri, sbagli, ricordi, incertezze. E di fronte a questa disponibilità, chi sono io per parlare delle loro colpe, presenti o presunte. Il materiale “umano” davanti a cui mi sono trovato davanti, mi ha sollecitato su diversi profili fra i quali non è prioritario il tema della colpa. Intendiamoci, nei racconti è sottesa una tensione morale, ma non le ho consegnato le chiavi della narrazione; ho ritenuto più interessante approcciare storie in cui il bianco o il nero, il bene o il male, l’innocenza o – te lo concedo – la colpa, non sono contrapposte in ragione di quella “o”, ma spesso e volentieri sono mischiate col collante di una “e”.
Non credo di aver fatto sconti ai miei personaggi, alcuni dei quali sono davvero storti forte, ma invece di condannarli e inchiodarli alle loro colpe (e sono due), ho voluto ripercorrere le loro sghembe traiettorie esistenziali e cercare di capire come accidenti hanno fatto a ficcarsi in quei gineprai, per uscire dai quali, personalmente, in quanto narratore, non trovo di meglio che citare a mia volta un verso di De Andrè: “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.

Le storie che racconti sono sempre ricche di ironia. Come si riesce a raccontare orrori e sconfitte senza perderla?

Risposta 1: è molto facile, basta che gli orrori e le sconfitte non abbiano a che fare con la tua vita.
Risposta 2: se gli orrori e le sconfitte ti appartengono e, vista la numerosità, ci hai fatto l’abitudine, allora ti sono familiari ed è possibile scherzarci su.
Risposta 3: se ti muovi tra orrori del mondo e tue sconfitte, e in entrambi i casi non c’è verso di farci l’abitudine, allora ti conviene mettere occhiali ironici e magari, con gentilezza, scriverne. Per sintetizzare, vorrei avvalermi – si parva licet – di un verso del sommo Julio Iglesias: “A volte sono un bastardo e a volte un buono. A volte non so neppure come io sono”.

Da dove arrivano i tuoi personaggi. Sono uomini e donne che hai incontrato o sono simboli?

Nelle “figurine” che propongo, in primo luogo ci sono gli uomini e le donne che io sono. Ci sono frequenti tratti autobiografici in termini di vita, sia vissuta che immaginata. A questo si sommano ore e ore di lettura grazie alle quali ho incontrato centinaia di autori e migliaia di personaggi che forse oggi tornano sotto mentite spoglie nei miei racconti. Non credo che nessuno della brigata dei “quasi adatti” ambisca al ruolo di simbolo, ma è gente alla mano, se qualche lettore, a suo rischio e pericolo, volesse fare un salto di livello, non penso ci sarebbero dei problemi. Moussa Balde, sorridente in foto a pag. 153 di Twist and Shout, era un ragazzo di ventitré anni, semplicemente due giovani occhi africani che hanno scelto di non guardare più l’offesa che stavano vivendo. Moussa non è un simbolo, è un essere umano che si è impiccato a Torino in ragione del trattamento riservatogli dallo Stato italiano. Né più né meno. Io ho incontrato lui e l’elefante Fritz sostando, per ragioni professionali, davanti al buco in cui si è tolto la vita nel lager di Corso Brunelleschi (per gli appassionati di acronimi C.P.R.). E mi manca non averli conosciuti da vivi.

Alcuni personaggi ritornano, penso alla splendida Felicita e ai suoi sogni…

Non facciamoci sentire (leggere) dagli altri personaggi, ma devo confessarti che per Felicita ho un debole. Ogni volta che ne rileggo la giornata, mi prende di brutto e mi porta con sé nella sua voglia di vivere, di abbandonarsi al suo istinto assoluto, alla rivendicazione del suo maledettissimo, accentato, diritto alla Felicità. E se non la si può avere, la Felicità, allora c’è bisogno di un altro racconto, c’è bisogno di una Panda del Pleistocene al gusto di cipolla e di Testa Grigia, cintura nera di ombrellone. C’è bisogno di conoscere la (vera?) storia del riso Vialone Nano e soprattutto c’è bisogno di imparare a essere discreti, lasciando le due figurine nel vortice che spazza via la spiaggia e, forse, le unisce per sempre. Hai ragione, concordo: senza falsa modestia, Felicita è splendida.

Qual è il vero tema centrale della raccolta?

I racconti di Twist and Shout sono stati composti nell’arco di un decennio con una scrittura che non ha seguito una linea progettuale ben definita. Anche adottando uno sguardo retrospettivo mi è comunque difficile individuare un’unica tema che leghi le diverse storie. Diciamo però che il punto di vista prevalente tiene spesso insieme dimensioni estremamente intime da una parte e contesti sociali dall’altra, il “personale” e il “pubblico”. Due esempi possono aiutare: “Senza parole” racconta di epifanie erotiche del protagonista e di un viaggio svoltosi nei giorni successivi all’esame di maturità che farà tappa nella stazione di Bologna, poche ore prima dell’esplosione; “Croce e Delizia” ci parla della vita di coppia, dell’invecchiare insieme con percorsi di malattia che rischiano di separare ciò che Dio ha unito e del cronico problema dell’abitare in Italia per chi non dispone di risorse sufficienti.

L’ultimo racconto parla di gabbie. Gabbie fisiche, gabbie legislative, gabbie morali. Di che si tratta?

In un’altra domanda mi hai chiesto di spiegare la chiave ironica con cui spesso tratto storie e personaggi. Nel caso di “Gabbie” l’ironia (della sorte) ha voluto che, negli stessi giorni in cui leggevo di Moussa Balde, mi imbattessi nella vicenda sabauda dell’elefante Fritz. Entrambi in gabbia, entrambi morti a Torino a distanza di oltre centocinquant’anni di distanza. Ecco l’innesco: gabbie che nel tempo ritornano, collegate da un filo teso che attraversa molte dimensioni, quella fisica con intento contenitivo-punitivo esperita dallo stesso Fritz, dagli animali dello zoo torinese, dai poeti Pound e Merini, dall’immigrato Balde; quella fisica sì, ma con finalità turistiche a protezione di persone che, calate in gabbie nei fondali marini, vogliono vivere l’esperienza dello squalo bianco a pochi centimetri dal proprio naso; quella economica che, attraverso interventi legislativi nell’immediato dopoguerra, ha compartimentato il territorio nazionale in diverse aree denominate appunto gabbie salariali. C’era quindi bisogno di parlare di gabbie? A mio avviso, ovviamente, sì. Mi perdoni Rosa Luxemburg se piego una sua celebre frase ai miei bisogni argomentativi: “Chi non si muove, non può rendersi conto delle proprie gabbie”. La scrittura è uno dei miei modi per muovermi, per capire le mie gabbie, prenderne le misure e, se possibile, uscire per qualche ora d’aria. Mi aiuta anche a leggere il mondo che mi sta attorno, quel mondo in cui, purtroppo, le gabbie non mancano.
Comporre Twist and Shout mi ha insegnato molto. Ho imparato che la scrittura può inventare gabbie a piacimento e subito dopo allargarne le sbarre; che la scrittura crea e distrugge mondi; che è un grande esercizio di libertà che ti consente rabbia e gentilezza. È un gesto profondamente umano e a quel punto non è più importante se l’immondo massacro nella gabbia di Gaza si possa o debba chiamare genocidio.

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