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Cultura

Quel racconto di Primo Levi che narra la sua corrispondenza con un nazista incontrato ad Auschwitz

Si intitola Vanadio, il protagonista è Muller, il nazista a capo del laboratorio di chimica di Buna in cui lavorò lo scrittore torinese

Sandro Marotta

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TORINO – “L’incontro che io aspettavo, , con tanta intensità da sognarlo (in tedesco) di notte,, era un incontro con quelli di laggiù, che avevano disposto di noi, che non ci avevano guardato negli occhi, come se noi non avessimo avuto gli occhi”: questa è una frase contenuta in Vanadio, il racconto di Primo Levi che narra la sua corrispondenza epistolare, a guerra finita, con un nazista incontrato ad Auschwitz.

La storia

Il racconto (contenuto ne “Il sistema periodico, 1975, Einaudi) è ambientato dopo la guerra, quando l’autore torinese, tornato dalla prigionia, lavora come chimico presso una fabbrica di vernici. Un giorno, una partita difettosa di resina costringe Primo a contattare l’industria che la produce, la W., nient’altro che “uno dei tronconi in cui, dopo la guerra, gli Alleati avevano smembrato la onnipotente IG-FARBEN”.

Muller, quel Muller

Tramite uno scambio epistolare iniziato per contrattare il risarcimento della merce, Levi scopre che il suo “collega” tedesco è il Doktor L. Muller, un chimico nazista che ai tempi della guerra dirigeva il laboratorio di Buna, vicino ad Auschwitz.

Levi, spinto dal desiderio di “ristabilire la misure, e dire: dunque?” tra vittima e carnefice, gli invia una copia di “Se questo è un uomo”; Muller riconosce luoghi e persone del romanzo. Tra i due inizia così una singolare e umana corrispondenza, in cui il chimico tedesco racconta gli orrori della guerra dal suo punto di vista, quello di chi indossava la divisa, lasciando intendere la sua condanna al nazismo.

“non aveva domandato spiegazioni a nessuno, neppure a se stesso”

Nelle sue parole però spuntano una serie di ricordi corrotti e distorti, costruiti per convivere con il senso di colpa di chi è stato spesso indifferente. Sostiene, ad esempio, che la fabbrica di Buna-Monowitz (che assumeva ebrei da trasformare in schiavi per la produzione), fosse stata installata per proteggere quanti più prigionieri possibili. Non solo: Muller dice di non aver mai incontrato indizi che suggerissero l’uccisione massiccia degli ebrei; “anche lui, evidentemente, non aveva domandato spiegazioni a nessuno, neppure a se stesso, benché le fiamme del crematorio, nei giorni chiari, fossero visibili dalla fabbrica di Buna”.

Emerge un’immagine opaca di tale Muller, “né infame né eroe”, che aveva certo mostrato segni di umanità sia al campo di prigionia sia durante la lettera, ma che rimaneva distante da un reale pentimento.

La telefonata e l’incontro a Finale Ligure

La settimana dopo aver ricevuto la lettera dell’ex nazista, Levi stende la sua risposta, ma ancora prima di finirla viene chiamato al telefono da Muller stesso, che gli propone di incontrarlo a Finale Ligure poche settimane dopo e, preso alla sprovvista, il sopravvissuto accetta. L’incontro per “superare il passato” però non avverrà mai: “otto gironi dopo ricevetti dalla signora Muller l’annuncio della morte inaspetttata del Dottor Lothar Muller, nel suo sessantottesimo anno di età”.

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