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Violenza sessuale, studio shock: il 90% dei campioni biologici delle vittime non viene mai analizzato

Ricerca UniTo: il 90% dei campioni biologici delle vittime di violenza non viene analizzato. Uso limitato del DNA e indagini spesso incomplete

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TORINO – Un dato che inquieta e apre interrogativi sul funzionamento dell’intero sistema giudiziario. In Italia, ogni anno, centinaia di donne intraprendono un doloroso percorso di cura e accertamento dopo aver subito una violenza sessuale. Una delle fasi più complesse è la raccolta dei campioni biologici: tracce fondamentali, spesso ottenute in momenti traumatici, che potrebbero aiutare a identificare un aggressore. Eppure nel 90% dei casi quei campioni rimangono inutilizzati.

La ricerca: 1175 casi esaminati, analisi genetiche disposte solo nel 7%

A rivelarlo è uno studio dell’Università di Torino pubblicato sulla rivista internazionale Forensic Science International: Genetics. La ricerca, sostenuta da Fondazione CRT e condotta da un team multidisciplinare dell’Università di Torino, dell’AOU Città della Salute e della Scienza di Torino, dell’Università del Piemonte Orientale, oltre che da specialisti della Polizia Scientifica, del RIS di Parma e del Centro Regionale Antidoping di Orbassano, ha analizzato 1175 casi trattati dal Centro SVS di Torino nell’arco di vent’anni (2003-2023).

In soli 92 episodi l’autorità giudiziaria ha disposto indagini genetiche sul materiale raccolto: poco più del 7%. Numeri che indicano una sottoutilizzazione evidente di uno strumento potenzialmente decisivo.

Gli esperti: “Strumenti avanzati, ma ancora poco sfruttati”

Secondo i ricercatori, quei campioni potrebbero cambiare radicalmente l’esito delle indagini, consentendo non solo di individuare più efficacemente gli aggressori, ma anche di scagionare innocenti.

La Banca Dati Nazionale del DNA, operativa dal 2017, è considerata un tassello centrale per collegare profili genetici provenienti da casi diversi. Eppure oggi viene utilizzata solo per il 25% dei profili idonei.

Lo studio evidenzia inoltre quali siano le situazioni in cui i magistrati dispongono più frequentemente un’analisi: aggressione recente (entro 4–9 ore), presenza di eiaculazione o aggressore sconosciuto. Ma, sottolineano i ricercatori, un profilo genetico utile può emergere anche senza sperma, con uso di preservativo o persino dopo una doccia: condizioni in cui spesso le indagini non vengono nemmeno avviate.

Il commento dei ricercatori

“I risultati ottenuti – dichiarano la Dr.ssa Alessia Riem e il Prof. Carlo Robino, rispettivamente prima autrice e coordinatore dello studio – offrono ai DEA di I e II livello del territorio nazionale ed ai Centri SVS spunti utili per aggiornare le politiche di raccolta e conservazione dei campioni biologici prelevati in occasione della visita ginecologica di vittime di violenza sessuale. A fronte degli imponenti sforzi degli operatori ospedalieri e delle comprensibili aspettative delle vittime che acconsentono a sottoporsi al campionamento biologico, l’indagine genetica rimane uno strumento non valorizzato nel contrasto alle aggressioni sessuali.

Lo studio ha permesso inoltre di identificare i principali fattori predittivi che l’autorità giudiziaria può tenere in considerazione al momento di decidere in merito all’opportunità di disporre o meno l’indagine genetica. Un impiego mirato e consapevole del test genetico nei reati sessuali non può fare a meno della Banca Dati Nazionale del DNA. Questo strumento, anche a molti anni dalla sua attivazione, appare tuttavia ancora poco sfruttato nelle sue potenzialità in base ai dati raccolti”.

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