IntervistePiemonte
Olivetti: il sogno operaio che sapeva di futuro
Fabrizia Costabloz racconta l’eredità umana e sociale dell’Olivetti
TORINO – Fabrizia Costabloz racconta al Quotidiano Piemontese una delle esperienze industriali più avanzate e umane del Novecento italiano. « Mia madre iniziò nel ’69 al montaggio delle piastre, poi passò al controllo qualità. Era orgogliosa. Alla Olivetti non eri solo un numero, eri parte di una comunità». A Ivrea, in fabbrica, si lavorava, ma si cresceva anche. Come persone, cittadini, madri e padri.
«C’erano gli asili nido interni, costruiti per le esigenze delle famiglie. Una mensa aziendale, una biblioteca dove leggere in pausa pranzo. Chi non aveva la licenza media poteva completare gli studi con le 180 ore. Si organizzavano corsi di formazione per tutti».
Era una fabbrica, ma sembrava un’università del lavoro e della vita. Lo stipendio era tra i più alti d’Italia. «Mia madre ricorda con gratitudine la tredicesima, la quattordicesima e i premi produzione. A Natale e Pasqua si ricevevano regali e venivano organizzate gite per i figli».
C’erano i presidi medici in ogni sede, controlli regolari per chi lavorava con materiali rischiosi come lo stagno. «Se ti sentivi male, ti riposavi. Si prendevano cura di te». Gli operai avevano la divisa perché non si tornava a casa sporchi. Niente straordinari imposti. Otto ore, poi a casa.
Fabrizia ricorda anche un aspetto straordinario per l’epoca: la cultura. «Attori e scrittori venivano a visitare l’azienda. Mia madre vide Rita Pavone e Pasolini. Ivrea era chiamata la Milano 2. Ogni casa aveva una foto di Camillo o Adriano Olivetti appesa alla parete. Anche mia nonna».
Poi arrivarono gli anni ’80. Il sogno cominciò a incrinarsi. «Con il declino sono arrivati i licenziamenti. Noi ci trasferimmo in Galles. Mio padre diventò cuoco. Dopo Olivetti, per molti non ci fu più nulla». Nel 1998 Fabrizia si è trasferita in Toscana. «Mi manca Ivrea, ma lì non c’era più lavoro. Ho dovuto scegliere».
Olivetti e Fiat: i due padri del Piemonte
«Fiat e Olivetti erano due bandiere del Piemonte. Due giganti che hanno fatto rifiorire il Nord, ma anche il Sud. Non c’era competizione tra le due aziende – ricorda Fabrizia – c’era orgoglio. Entrambe hanno dato dignità a migliaia di famiglie, soprattutto a quelle che arrivavano dal Sud, dove il lavoro non c’era e tanti uomini erano partiti per l’America, lasciando le cosiddette vedove bianche con decine di figli». Fabrizia racconta un’Italia ancora povera e frammentata, dove il pregiudizio era quotidiano.
«Molti mi hanno raccontato che sui portoni delle case si leggevano cartelli con scritto: “non si affitta ai meridionali”. Erano visti come stranieri, sporchi, ignoranti». In quel contesto, Fiat e Olivetti furono pronti. Costruirono alloggi, offrirono stipendi dignitosi, istruzione e prospettive. «Furono due padri del Piemonte, dell’Italia e persino dell’Europa».
Anche chi, come la sua famiglia, non lavorò mai alla Fiat, riconosce la sua importanza. «A Torino, la Fiat ha spaccato una frontiera. Ha trasformato una città. Ha creato speranza. E lo stesso ha fatto l’Olivetti a Ivrea. Erano due modi diversi di fare impresa, ma ugualmente rivoluzionari».
Poi è arrivata la crisi. «L’Olivetti è crollata per prima, poi anche la Fiat ha lasciato il territorio nazionale, cercando manodopera a basso costo all’estero. E così il Piemonte è rimasto chiuso dentro una gabbia».
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